UK 2017. Al cinema dal 15 febbraio.
Siamo nel 1964, a Parigi,
quando James Lord, americano scrittore e biografo di alcuni artisti,
accetta di posare per Alberto Giacometti, praticamente amico oltre
che pittore e scultore “di fama internazionale”. Dovrebbe essere
questione di qualche sessione, di poche ore. Ma Lord si troverà
incastrato nel processo di creazione artistica del mai soddisfatto,
volubile Giacometti, transitando giorni e giorni per il suo atelier
per quel quadro che sembra non possa essere finito.
Convenzionale, patinato,
di maniera: il film scritto e diretto dal solitamente attore Stanley
Tucci e basato su Un ritratto di Giacometti di James Lord è
stato criticato così da alcuni. Ma a chi scrive sembrano giudizi che
si fermano non oltre la superficie di un film più che dignitoso.
Final Portrait opta
per una fotografia leggermente desaturata, tanto per renderci chiaro
che siamo distanti nel tempo attraverso una “patina”. In ogni
caso, l'uso di scorci, locali tipici e cose parigine varie, dai
bistrot alle
baguettes, è
limitato; perché, è in questo il film è centrato e vincente, in
buona parte stiamo nello studio dell'artista, introdotto con una
sequenza in cui lui vi si aggira lungamente, toccando, spostando,
preparando.
L'Alberto Giacometti del
film fuma e beve come di prammatica e come un dannato, ma soprattutto
è molto duro con la sua arte, oltre che con quella altrui (ha delle
rimostranze su Picasso, mentre su Cézanne sentenzia: è l'ultimo
grande pittore). Interrompe il lavoro sul quadro in continuazione,
per motivi noti solo alla sua testa, ed è capace di affermazioni
tipo “Quando la speranza è al massimo, mi sento perduto”, come
dice al suo modello, lasciandolo ulteriormente senza difese. L'opera
d'arte a cui lavora sembra andare oltre il suo controllo, e
inquietantemente la si dice destinata a non avere una fine, a non
poterla avere: e quindi dev'essere, abilmente, imposta.
Rush è perfetto, e se
impersona in un modo non fuori dai canoni un artista arruffato e a
cui è difficilissimo stare dietro, l'interpretazione comunque è
viva e basterebbe a renderla degna di lodi il passaggio in cui
Giacometti si mette a letto trasformandosi anche nel non verbale,
mutando la sua inquietudine e l'incedere ingobbato nella stasi di un
vecchietto malato e remissivo, tra le coperte. Ma anche gli altri
attori e personaggi intorno sono degni di nota: Tony Shalhoub nei
panni del fratello artista Diego, Clémence Poésy (vista in questo
TFF anche in Tito e gli alieni)
nella parte della giovane prostituta che è la passione di Alberto,
Sylvie Testud che fa sua moglie, un po' rassegnata un po' non doma un
po' amorevole. Hammer meno, ma anche perché è costretto nel ruolo,
bel ragazzo sempre ben vestito e composto e testimone non intrusivo
di un ambiente, oltre che contrapposizione ambulante dell'artista:
l'uno immobile, o quasi, l'altro quasi mai.
Ma a conti fatti il film
è interessante anche per la sua struttura. Diviso nelle giornate
delle sedute al cavalletto, racconta però una tranche de vie
dall'andamento piano, senza veri picchi; c'è una sequenza di
“montage” per sunteggiare alcuni di questi giorni verso la fine,
ma gli atti di una sceneggiatura tradizionale non si fanno notare. E
il climax, quel che sblocca e porta a conclusione il “calvario”
dei protagonisti, è repentino. Complessivamente, quindi, un lavoro
godibile e migliore di quanto la scorza da biopic semi-d'essai per un
pubblico tranquillo possa far presagire. Un poco di tremolio in meno
nell'uso della macchina a mano sarebbe stato gradito.
A.V.
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