lunedì 5 dicembre 2016

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 34 TORINO FILM FESTIVAL, 18-26/11/2016. SULLY

Usa 2016. In sala dal 1° dicembre.

L'aereo di linea che il capitano Sully (Hanks), coadiuvato dal secondo Jeff Skiles (Aaron Eckhart), decide rapidamente di fare atterrare sul fiume Hudson, in piena New York, poteva essere protagonista di un'altra tragedia statunitense con protagonista un velivolo, come viene fatto notare a un certo punto al protagonista; il ricordo dall'attacco alle Twin Towers, al cuore (anche) di una città, è ancora vivo – e come vedremo non è superfluo rilevarlo – . Per far fronte a un problema sorto appena dopo il decollo ed evitare uno schianto in città, Sully prende una decisione rapida che assicura la salvezza di tutti i presenti a bordo. Ma dopo l'impresa, per quanto considerato un eroe dalla gente, Sully e Skiles devono subire un'inchiesta da parte del National Transportation Safety Board: i dati che l'ente raccoglie non collimano con quanto raccontano i protagonisti, e risulta che Sully poteva agire in un altro modo, atterrando all'aeroporto LaGuardia, perché non l'ha fatto?
Basato sul libro scritto dal pilota protagonista della vicenda realmente accaduta, Sully prosegue una linea eastwoodiana, non continua, di lavori incentrati su una figura maschile realmente esistita (il penultimo suo film era il grande successo American Sniper).
Scritto e diretto con la sicurezza e quella misura che non esclude affatto la commozione, la spettacolarità (almeno in questo caso e classicamente intesa) e una retorica comunque tenuta sorvegliata, non va a inserirsi tra il meglio del regista, né tra i suoi film più stimolanti. Non siamo, e pazienza, al livello di quei film che segnarono negli anni 2000 una rinascita artistica, di stima critica e di pubblico come Mystic River e Million Dollar Baby; ma nonostante pare che tutta la critica non la veda così, per chi scrive siamo anche palesemente ben lontani dalla problematicità di un J. Edgar.
Certo il materiale e i temi, messi sul piatto in modo piuttosto chiaro ed esplicito, sono definibili come eastwoodiani. L'individuo (comunque amatissimo dalla gente, in questo caso) e la comunità, che in questo caso è “l'establishment” e che pure, viene riconosciuto, fa semplicemente il suo lavoro; il valore massimo dato all'esperienza vissuta, da chi c'era e da chi di esperienza ne ha alle spalle, contro il dato tecnico che a confronto non è una cosa seria (il che, se si vuole, è anche bollabile come reazionario, ma sia detto en passant, che Clint lo si conosce e non importa certo puntargli un dito contro).
L'esperienza contestata a Sully tocca sottoporla a verifica, e per farlo bisogna ripeterla, riviverla in qualche modo, o almeno avvicinarsi a farlo: attraverso le simulazioni proposte all'udienza, che risultano lievemente goffe e al limite del “for dummies” prendendo l'intero 2.39:1 del film, anche se funzionali al suo discorso, poi “sul serio”. E sul serio significa rivedere l'accaduto una seconda volta (nella finzione, per il tramite dellaudio dell'incidente). Entrambe le volte, in versione estesa e ridotta, la messa in scena dell'evento al cuore del film inchioda alla poltrona, e questo è il minimo che si deve riconoscergli.
Hanks offre una performance quasi toccante, misuratissimo e minimale. Ma la fondamentale sicurezza del suo personaggio, che nonostante la vicenda rischi di levargli il sonno attende fiducioso che le cose vadano come devono andare, non aiuta a fare assumere un peso drammatico al film tale da renderlo realmente memorabile e scosso da particolari onde di chiaroscuri più che lineare, nonostante il peso magno dei flashback. E a fine film (e si intende proprio alla fine: non tanto nella sequenza all'udienza ma nelle immagini sui titoli di coda), dopo la vittoria del fattore umano (eastwoodiana anch'essa, come già ben sappiamo), le anime del film che effettuano il sorpasso sono quelle dell'omaggio al protagonista, a una città e ai suoi valorosi uomini, e a un paese, come un caloroso riabbraccio sotto la bandiera americana.
Questo, certo, non impedisce al film di essere, oltre che emotivamente efficace, godibile anche per noi: la “solita” forza del cinema Usa solido. Che in un certo senso basta, anche senza essere convinti che Sully sia bellissimo o ideologicamente da far innamorare.
Alessio Vacchi

Il trailer: https://www.youtube.com/watch?v=8-r8soVu1D8

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 34 TORINO FILM FESTIVAL. GODLESS

Tit. or. Bezbog. Bulgaria/Danimarca/Francia 2016. Di Ralitza Petrova. Con Irena Ivanova.

Gana, badante in una cittadina della profonda Bulgaria, sottrae agli anziani presso cui lavora i documenti, che il compagno (con cui non c'è -più- sesso, il piacere che si danno è dato dalla morfina) rivende. La polizia li conosce e copre questo traffico, anche quando lui “esagera” nello spaventare un vecchietto che scopre il gioco. L'avvicinamento a Yoan, paziente che denuncia il furto e viene conseguentemente messo sotto accusa e minacciato, segna per Gana una possibile riappropriazione del sentimento dell'empatia, ma è un vicolo cieco.
Progetto nato all’interno di TorinoFilmLab e premiato col Pardo d’oro a Locarno, Godless è scritto e diretto da una regista al primo lungometraggio. Ed è un film rigoroso, indurito e congelato come la protagonista, la cui espressività e i cui sentimenti sono celati, sembrano lontani, come in attesa che lo strato che li protegge si sciolga.
In un film nettamente “autoriale” come questo sembrerebbe forzato parlare di elementi di genere, eppure lo scheletro del film è riconoscibilmente noir: perché abbiamo un personaggio che opera e vive in un sotto-mondo scarso di senso umano, e ne è complice, fino a quando non dice dei “no”, per un risveglio della coscienza che la porta a cercare di uscirne e a quel punto di questo sistema diventerà vittima.
Se la sceneggiatura presenta ellissi decise (e gli stacchi tra le sequenze sono talvolta bruschi), la scelta più forte che la Petrova opera è quella più evidente, che condiziona tutta la visione: il desueto formato 4:3. Scelta espressiva forte, che corrisponde, amplificandolo, al soffocante che caratterizza lo squallido mondo, per povertà di livello di vita e morale, di Gana, quasi sempre in scena, anche se non sempre in campo, sebbene la Petrova le affidi pure dei primi piani lunghi. Il nostro sguardo restringe questo mondo a un modesto rettangolo; la regia però non gioca in modo spiccato, tantomeno abusa, del fuori campo (ed è curiosa un'inquadratura all’interno di un auto che, tagliando fuori conducente e passeggero al fianco, somiglia a un 16:9 errato).
A conti fatti, la Petrova sembra suggerire che una giustizia, lì e ora, non è contemplabile. Tristemente e francamente, la regista traccia un continuum esplicito tra la tradizione di “giustizia” durante il regime comunista e la pseudo-giustizia operata nel film, un sistema che va dal mancato rispetto della persona alla punizione che copre e permette di far continuare uno status quo sporco (vedi il dialogo con l’anziano, o le parole degli agenti in auto nel pre-finale). Però il finale dice di un'altra forma di giustizia, quella del fato (o di un'entità superiore), in modo crudele e beffardo, e riallacciandosi all’avvicinamento alla fede che la protagonista stava compiendo, un modo alla sua portata di provare ad elevarsi, ad accedere a qualcos’altro.
Se nella profonda Romania in cui è ambientato il bel Dogs, altro film presentato nella sezione TorinoFilmLab quest’anno, la polizia “sta a guardare”, impotente e inefficace, una situazione delinquenziale di lunga data, salvo interventi estremi dettati dalla coscienza di un singolo, qui come detto il riavvicinamento di un personaggio a una morale di base c'è, ma il ritratto delle forze dell’ordine è negativo a dir poco. Anche se il mostrare questo potere come depravato anche sessualmente, tra orge e choking, è superfluo come tassello in più.
Un esordio dal passo lento, accidioso; un film compiuto.
A.V.

Il trailer: https://www.youtube.com/watch?v=QnxgAdPDYZ0

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 34 TORINO FILM FESTIVAL. I FIGLI DELLA NOTTE

Italia/Belgio 2016. In sala nel 2017.

Il mite Giulio entra in un esclusivo e isolato college in montagna, in cui rampolli della buona famiglia vengono educati a 360 gradi a essere la classe dirigente di domani. Dopo l'impatto coi bulli – i ragazzi più grandi, con cui non è possibile un buon rapporto – , Giulio fa amicizia con un ragazzo che si autodefinisce borderline, Edoardo, che gli fa conoscere una discoteca/night club, e i due iniziano a frequentarla clandestinamente. Qui Giulio conosce la giovane escort dell'est Elena, un'altra anima con cui entra in sintonia e con lei inizia una relazione. Di fronte all'imposizione da parte dei tutor di non andare più nel locale, alcuni di loro “evadono”. Anche Giulio, che una volta fuori si riunisce a Elena. Qui siamo già a un passo dalla fine del film e si può non rivelare altro.
Accolto alla prima da una claque sproporzionata rispetto al valore del film, unico lungometraggio italiano in concorso a quest'edizione (ma francamente è difficile credere non ci fosse nulla di meglio), I figli della notte è l'esordio alla regia di Andrea De Sica, nipote di Vittorio. figlio di Manuel (e quindi Christian è suo zio), giovane ma non giovanissimo con i suoi 34 anni.
Coprodotto col Belgio, presentato attribuendogli sforzatamente influenze da If... , da Bellocchio e addirittura Lynch (chiaro comunque un richiamo all'innevato Shining), vi trova posto anche un omaggio a De Sica Vittorio, nella riuscita sequenza della fuga cantata dal collegio (vi si sente Vivere, pezzo utilizzato ne Il giardino dei Finzi Contini).
Visivamente e sensorialmente lascia il segno. Con una fotografia curata e una regia che cerca il bello, ha una confezione sopra la media, ma questo non basta a soddisfare. Non lascia indifferenti, ma “riuscito” è un'altra cosa.
De Sica sfoggia uno stile che all'inizio sembra promettente, complici le atmosfere cupe (vedi la sequenza di bullismo notturno) e l'attesa di comprendere dove si andrà a parare, anche quanto a cattiveria. Stile che poi si rivela gonfio, affidandosi a diverse sequenze in discoteca, che difficilmente vengono male, tantopiù se ci spari dentro musiche accattivanti come Ti sento dei Matia Bazar, ma che, superfluamente lunghe, rivelano bene i limiti e il ciurlare nel manico del regista.
L'atmosfera è tenuta su, mascherando il non molto che c'è dietro, con l'aiuto di un tappeto sonoro costellato di bassi che però, ad esempio, in un passaggio come quello in cui gli amici del protagonista entrano per la prima volta nel locale, non ha ragion d'essere, in fin dei conti. Il film mette sul piatto elementi e suggestioni che poi lascia perdere: oltre al bullismo (non perché lo si volesse veder trattato come tema, ma è che pure narrativamente a un certo punto viene spento), quel 10% di horror che ad un certo punto De Sica introduce ma si rivela, oltre che troppo poco per essere preso sul serio, furbo nella sua vaghezza.
Il risultato finale è paradossalmente (dato l'impianto visivo) striminzito, del film se ne vorrebbe di più ma meglio, e il finale giunge inaspettatamente, ma non in senso buono bensì facendo chiedere: tutto qui?
L'impressione è che De Sica sia un esordiente di lusso, non certo privo di talento, che abbia avuto l'opportunità di giocare col cinema. Ci sarebbe voluta una sceneggiatura più completa, con suggestioni più padroneggiate, ambizioni più definite e idee più chiare (sì, il protagonista in fin dei conti compie un suo percorso, è il coming of age di uno squalo, ma di nuovo, il comprenderlo non compensa...), e a costo di sembrare liberticidi anche un produttore che gli stesse col fiato sul collo. Ma stiamo parlando di un film che non è questo e che chissà, forse verrà.
A.V.

Una clip: https://www.youtube.com/watch?v=Oor6D6EKwag

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 34 TORINO FILM FESTIVAL. JESUS

Francia/Cile/Germania/Grecia/Colombia 2016.

Il giovane Jesús è un adolescente che vive a Santiago praticamente da solo, perché il padre viene e più spesso va, passandogli riluttante i soldi che gli servono. Non studia né lavora, ma con gli amici passa il tempo fumando, bevendo, esibendosi sul palco a ballare in gruppo musica pop. Una sera, ubriachi, Jesús e compari si lasciano andare a picchiare a sangue un coetaneo trovato praticamente incosciente in un parco. La notizia che il malcapitato è finito in coma funge da brutale sveglia per Jesús, i cui amici, con logica di gruppo, lo convincono o minacciano a restare omertoso. Ma fingere che nulla stia succedendo è difficile e lui si apre al padre, che si sforza di aiutarlo prendendolo sotto la sua ala e agendo per lui.
Passato a Toronto prima del concorso torinese (in cui il giovane Nicolás Durán ha vinto come miglior attore), il film è l'opera seconda di Fernando Guzzoni dopo il non molto visto Carne de perro.
Un po' programmaticamente controverso, unendo il suo metodo stilistico alla storia e al contesto raccontati il regista si muove tra rigore e furbizia, in un modo che ha convinto poco diversi spettatori un po' sgamati, stando ai commenti colti dopo la visione. Il metodo è quello di piani lunghi, di insistiti primi piani sul protagonista, di inquadrature in cui lui è di spalle e a fuoco mentre il resto è fuori fuoco, o diventa leggibile solo quanto basta per capire cosa lo circonda.
Se funziona l'interminabile sequenza del tentativo di conoscenza e conseguente dispiegamento di violenza verso il ragazzo ubriaco, i passaggi hard, compreso uno gay, sono ancora più una spia del confidare in una forza provocatoria che però (spettatori casuali a parte), nonostante erezioni e rapporti veri o quasi, rischia di risultare “vecchia”.
Un modello di fare cinema non nuovo insomma, anche o soprattutto nel guardare a personaggi giovani, ma che è difficile definire privo di brutale efficacia. La desolazione e il grado zero o quasi delle vite di questi ragazzi dediti solo al piacere e al deboscio, oltre che dai modelli omologati, tra infighettamento estetico e popband entrambi dal sapore bieberiano, colpiscono spiacevolmente e non li si avverte come lontani.
Uno degli aspetti migliori del film è la figura, decisiva, del padre di Jesús. Figura paterna che all'inizio c'è, per poi continare a lasciare il figlio immaturo a sé stesso e infine tornare a danno fatto, a cercare di fare il padre nel senso di proteggere il suo ragazzo, mettendosi in testa di aggiustare quel che di gravissimo ha combinato, e poi di fare la cosa più giusta e di insegnamento, che non è la più facile, a costo di interrompere un legame. Bella l'ellisse che elimina la confessione del giovane al papà, facendoci passare da una scena familiare, a base di una routine che non può più reggere, a un attonito confronto tra lacrime e shock.
Al di là del richiamo cristiano, si può ravvisare anche qui, oltre che per Godless, un collegamento con Dogs, ma sotto un altro aspetto. Anche qui abbiamo delle persone giovani che non riescono ad avere il controllo della propria vita, e chi si prende la briga di risolvere le cose, in modi radicalmente diversi, sono “i padri”.
Una sorta di racconto morale visto con distacco emotivo, Jesús. Un film non per tutti i gusti e meno riuscito di quanto probabilmente crede di essere, ma neppure così scrollabile dalle spalle.
A.V.

Il trailer: https://www.youtube.com/watch?v=Vii_7HL9Gfk

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 34 TORINO FILM FESTIVAL. LAVENDER

Canada/Usa 2016. Con Abbie Cornish, Dermot Mulroney. 

Jane ama fotografare case isolate. Non ha mai fatto pace coi vaghi ricordi della casa in cui ha vissuto da bambina e in cui era stata testimone (solo?) di un massacro. Ha visioni improvvise di bimbe e le capita di trovare oggetti: momenti che la portano a un incidente dopo il quale perde momentaneamente la memoria. Con marito e figlia, si trasferisce allora proprio nella casa dell'infanzia, non lontano da uno zio ritrovato, dove le visioni si intensificheranno fino a consentirle di fare i conti definitivamente col passato lontano e scoprire chiaramente cosa era accaduto circa trent'anni prima.
Di Ed Glass-Donnelly si era visto anni fa al TFF Small Town Murder Songs, un crime-movie intenzionalmente lasso. Questo Lavender, visto nella sezione “After hours”, è un film che, volendo cercare di etichettarlo, è più pienamente di genere, e in modo più classico (nel mentre, il regista ha diretto il sequel di The Last Exorcism, uscito anche in Italia), ma confrontando (a memoria) i due film, era meglio quando questi benedetti generi li prendeva più alla larga e in modo più personale.
L'approccio visivo del regista è all'insegna dell'ovattato. Si susseguono con una certa placidità visioni a vantaggio della protagonista e dello spettatore, comprese bambine che si fanno correre dietro (ma anche uomini, in un passaggio, non da buttare, nel quale la protagonista si intrappola in un labirinto di balle di fieno).
Il prologo sembra avere qualcosa di promettente, nel darci quadri della scena del crimine staticizzati ed esplorati tridimensionalmente dalla camera, ma la conferma che ci si è sbagliati arriva quando Glass-Donnelly (anche co-sceneggiatore) decide di mostrarci la dinamica del fatto di sangue, il chi e il come. Introdotta in modo pedestre da un personaggio (quello dello psichiatra a cui Jane viene affidata dopo l'incidente) che si discolpa indicando il vero responsabile, è una sequenza cui O'Donnelly dà spessore nella modalità evidentemente prediletta: quella del rallentare il tutto, fino a tornare ad effetti simili a quelli dell'apertura. Funziona così così, e il ridicolo è dietro l'angolo, prima del momento risolutivo di tutto quanto, che è rapido e poteva essere sfruttato meglio.
Se i boo scares sono soft, l'uso della musica, pesante e onnipresente fino a diventare noioso, dà un deciso contributo negativo all'insieme poco convincente. Il risultato complessivo è spuntato, bolso, con tensione e brividi quantomeno discontinui.
Gli interpeti, piuttosto medi, non aiutano ma non è neppure colpa loro se il film è molle: un horror drammatico, quasi per signore, che la dignità di horror la raggiunge ma è molto probabile che scontenti l'appassionato. E conferma in chi scrive i dubbi su un atteggiamento diffuso tra i seguaci dei generi: cosa è peggio, cosa vale più la pena di vedere tra un film che costeggia un genere pur non sentendo il bisogno di metterci mani e piedi, e un film come questo che è di genere ma poco riuscito?
A.V.

Il trailer: https://www.youtube.com/watch?v=-_ltn43Bx9A

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 34 TORINO FILM FESTIVAL. PORTO

Francia/Polonia/Portogallo/Usa 2016. Di Gabe Klinger.

Jake e Mati, in quel di Porto, vivono una storia d'amore che dura l'arco di una notte. Lei accetta l'approcciarsi di lui in un locale e un feeling, un'attrazione tra i due emergono subito. Lui l'aiuta a portare scatole nel suo nuovo appartamento, in cui scatta il sesso. A cui segue un livello di conoscenza con il dialogo oltre che biblico, e una tenerezza malinconica prima di finire col riposarsi a nuovo giorno già iniziato. Lei, però, è già ufficialmente impegnata, con un uomo più maturo e soprattutto quel che stiamo vedendo appartiene già al passato. In questa relazione dopo la quale è lui soprattutto a esserci “rimasto sotto”, come si suol dire, lo star bene insieme per i due è stata una magnifica parentesi, da ricordare, sullo sfondo di una città.
La struttura con cui il film racconta questo brevissimo rapporto di amore e sesso è originale. Suddiviso in tre pseudo-capitoli, Porto va avanti e indietro, seguendo meglio un personaggio e poi l'altro, ritornando su alcuni passaggi, ampliandoli e fermandosi poi su altri non ancora visti (la cena, che sembrerebbe un primo appuntamento invece scopriamo essere avvenuta di notte, già dopo l'esplodere della passione).
La passione scoppia improvvisa, con un'impellenza da cinema (e complice un piede di lei: feticisti alert), e tra incredulità e piacere lui e lei mettono assieme tre amplessi quasi di fila (in barba a quel che si chiama periodo refrattario). Dopo aver preso questa piega erotico-cerebrale, il film ne prende una poetica, e mostra ancora più il fianco. Seduti su una panchina, i protagonisti filosofeggiano, ma lì rischiano di perdere lo spettatore, nella ricerca di qualcosa di serio da dire sull'esperienza e le emozioni vissute.
Tutto questo è “cinematografato” con un'estetica slow dovuta al ricorso non solo alla pellicola, che con la sua grana contribuisce all'aura “intima” del film, ma anche a formati diversi, perché oltre al tradizionale 35mm abbiamo brevi passaggi a 8 e 16mm.
Lucie Lucas, bella e abbastanza brava, sfoggia nelle scene erotiche un nudo scultoreo. Purtroppo chi scrive non è riuscito, a differenza di un po' tutti a quanto pare, a gradire la performance di Anton Yelchin. L'attore tragicamente scomparso, a cui il film è dedicato (ma ne ha tre ancora in arrivo), attraversa l'intero film sulla stessa tonalità, ma così il suo personaggio sembra francamente un rincoglionito, o come minimo uno in attesa di una pacca che lo distolga dai suoi pensieri. Se è vero che il suo tratto vocale è quellolì, grattato, il modo in cui il personaggio è impostato e la sua fissità non giocano a favore della riuscita del film, anche se vanno nella direzione che evidentemente il regista brasiliano, all'esordio nel lungo di finzione, voleva: una sorta di intensità introversa a dispiegamento lento, o quantomeno modulato, in un mood che conta più delle parole che vengono dette e cui concorrono anche le note di piano in colonna sonora.
Un tempo felice, da assaporare e che sarebbe da fermare (anche perché il “dopo” non lo è, tra lui che si abbassa a un gesto violento e lei che non ha azzeccato il nuovo legame); due protagonisti che condividono un'esperienza percepita come strana ma impossibile da evitare, qualcosa che doveva succedere (come da parole di lui). Un dolce e malinconico tributo al bello inatteso che la vita può aprire davanti, per poi richiudere: quello che Porto ha da dire arriva, convincendo però parzialmente.
Produce Jim Jarmusch.
A.V.

Il trailer: https://www.youtube.com/watch?v=CIVBl-v0TSk

lunedì 25 gennaio 2016

The freak show. SHADOW CREATURE

Usa 1995.

A Cleveland, un impulsivo agente di polizia indaga sugli efferati omicidi commessi da un feroce mutante anfibio, a sua volta creato in laboratorio da uno scienziato pazzo alla ricerca del segreto dell’immortalità.
Prima ed unica opera da regista del direttore della fotografia e operatore James P. Gribbins, Shadow Creature è un letale film a basso costo girato a Buffalo, nello stato di New York, tra locations di fortuna e attori da teatro parrocchiale di provincia. Nonostante la premessa da horror di serie B come se ne sfornavano a mazzi tra gli anni ’80 e ’90 (si pensi ai vari C.H.U.D., Watchers, DNA e compagnia), il film ha la peculiarità di degenerare periodicamente nella commedia grassoccia, con effetti sonori presi di peso dai film dei Tre Marmittoni, battute da far incarnire le unghie e copiosi rigurgiti di vomito: i cambi di tono sono talmente bruschi (nonostante la totale incapacità del cast, che rimane costante) da far sospettare che siano un espediente escogitato in corso d’opera per buttare tutto in farsa e salvare così capra e cavoli. Per il resto, la pellicola scorre stopposa senza la benché minima tensione e pure le saltuarie iniezioni di gore sanno di approssimativo. Un discorso a parte invece meritano gli effetti di make-up: benché realizzato in economia, il mostro non sarebbe nemmeno male, se solo le inquadrature e l’illuminazione fossero mirate a valorizzarlo. Originariamente uscito in VHS negli USA ed in alcuni Paesi come la Francia (con il titolo di Cauchemar Sanglante), Shadow Creature fa ogni tanto capolino in rare riedizioni in DVD e Blu Ray all’Estero: chi scrive sa di almeno un box-set in alta definizione uscito in Germania qualche anno fa che conteneva proprio la creatura di Gribbins assieme a film come Abominable (un horror sullo Yeti uscito nel 2006 con Jeffrey Combs e Lance Henrisken) e Star Crash-Scontri stellari oltre la terza dimensione di Luigi Cozzi. A chiunque voglia davvero recuperarlo, posso solo augurare una buona caccia. 
Emiliano Ranzani

In alto: copertina della brochure da www.behance.com.

The freak show. BLOODLUST


A Melbourne, tre vampiri. assetati più di sesso e droga che di sangue, decidono di rubare tre milioni di dollari da un casinò gestito da malavitosi. La rapina va a buon fine, ma il trio finisce nelle mire di un gruppo di invasati religiosi, di una coppia di poliziotti cialtroni e degli stessi criminali da loro derubati.
Bloodlust è un frullato di splatter, action movie e trash comico-demenziale, scritto e diretto a quattro mani dagli esordienti Jon Hewitt e Richard Wolstenfroft nel 1992. Sua caratteristica peculiare è il non essere stato girato in pellicola ma bensì in video, una rarità per i primi anni ’90, soprattutto se si considera che l’opera in questione è uno sforzo produttivo non indifferente: tra sparatorie con armi automatiche, colpi in arrivo, esplosioni, riprese con bracci a testa remotata, un sonoro presente ed una direzione della fotografia dignitosa, Bloodlust si distingue decisamente dalla maggior parte delle produzioni in elettronico del periodo, spesso e volentieri di livello amatoriale o poco più. Ma aldilà di questo dato mero tecnico, il film non brilla per nessun merito effettivo: gli attori oscillano tra il legnoso ed il gigionismo più spinto, la storia fa acqua da tutte le parti e pure la confezione è priva di vero brio. Benché le provi tutte per risultare disgustoso ed offensivo, con iniezioni di splatter ed un paio di scene soft-core, il film finisce per passare come uno scherzo tra adolescenti tirato un po’ troppo per le lunghe, non dissimile da cose come Razor Blade Smile di Jake West. Ciononostante, ai tempi riuscì a ritagliarsi il suo quarto d’ora di celebrità all’Estero dopo essere stato bandito nel Regno Unito e nel Queensland.
Per anni di non facile reperibilità, Bloodlust è ora disponibile in un'edizione DVD australiana prodotta dalla Monster Pictures nel 2013. Se siete dei veri irriducibili della serie B (o anche della C2, zona di retrocessione), accattatevillo.
E.R.

Il trailer: https://www.youtube.com/watch?v=Zr2umn9R9Og