domenica 11 dicembre 2011

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 29 TORINO FILM FESTIVAL, 25/11-3/4/2011. SECRET HONOR


Usa 1984.

Robert Altman, a cui il TFF di quest'anno ha dedicato una bella retrospettiva, è famoso prima di tutto per il dato della coralità: molti suoi film sono abitati da decine di personaggi. Qualche volta ha ristretto l'ambientazione e di conseguenza il loro numero, come nei film immediatamente precedenti a questo, Jimmy Dean, Jimmy Dean e Streamers. In Secret Honor giunge all'estremo, girando un film di un'ora e mezza chiuso in un solo ambiente e con un solo personaggio in scena. E questo personaggio è l'ex presidente Richard Nixon. La conseguenza è che lo sguardo altmaniano sul proprio paese, da un lato, in un certo senso, stavolta “è” il film, dall'altro è filtrato tramite il fiume di parole di un solo protagonista, per quanto importante.
Nixon, interpretato da un bravo Philip Baker Hall, è chiuso nel suo studio e ha intenzione di registrare su nastro le sue verità; in realtà spesso, complice l'alcool e il rancore, sembra non importargliene di eventuali ascoltatori (identificati in un aiutante, nel giudice di una corte...), il registratore viene stoppato e si lascia andare senza peli sulla lingua. Parla di politica, di sé stesso e della sua storia personale, si confronta con altri -come i Kennedy- e chiaramente dà la sua versione sullo scandalo Watergate, sostentendo (“Ho fatto una piece teatrale sui nastri, questo invece è il mio onore segreto”) di aver voluto egli stesso dire basta alla sua carriera per fermare lo sporco intrinseco al suo comitato di rielezione. Il suo discorso è arruffato e continuamente interrotto, costellato di incazzature dove gli insulti peggiori li prende Eisenhower, ritratto in uno dei quadri appesi alle pareti, tra gli elementi in scena insieme a non molti altri quali la bottiglia di whisky e una pistola sul tavolo, una vecchia Bibbia, alcune fotografie in cornice, gli schermi a circiuto chiuso. Su di essi si chiude in modo forte il film ed è buono anche un momento in cui Altman, inquadrandoli, dà agli spettatori l'impressione di star spiando un poveretto in vena di tardivi sproloqui. Secret Honor non è però esattamente un esercizio di stile: ovviamente ci sono i long takes immaginabili, ma Altman fa respirare lo sguardo con degli stacchi. L'inquadratura più inaspettata è uno zoom all'indietro durante un urlo di Nixon.
Un film così si regge su due poli: chi dice e cosa dice. L'elemento del parlato sembra fare la lotta per avere la meglio su quello, sobrio ma inevitabilmente predominante, visivo. Purtroppo per comprendere bene i riferimenti politici servirebbe una lezione preventiva di storia americana del Novecento, tanto che qualche volta si è rinfrancati quando i discorsi di Nixon virano altrove. Molto bravo Philip Baker Hall, che introduce ogni frase del suo Nixon agitando l'indice. Altman all'epoca era docente all'università del Michigan e ha girato il film con la collaborazione degli studenti.
Alessio Vacchi

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 29 TORINO FILM FESTIVAL, 25/11-3/4/2011. SUICIDE CLUB


Giappone 2002. Di Sion Sono.

Il film più famoso del regista giapponese cui quest'anno è stata dedicata la sezione “Rapporto confidenziale” si apre con una sequenza di suicidio collettivo scioccante e anch'essa relativamente nota. Ma ce n'è una similare e migliore ed è quella del suicidio dal tetto della scuola, che inizia come un gioco fatto per parodiare quel gesto e diventa un atto estremo compiuto col groppo in gola e con pochi indecisi che tentennano. Cosa o chi c'è dietro queste infornate di suicidi compiuti come riti premeditati? La polizia indaga sulla traccia di un rotolone composto da quadretti di pelle umane e un sito web. Ma le morti non si fermano, anzi e la verità sembra inafferrabile. Dopo la cattura di apparenti “colpevoli”, una ragazza si avvicina ad un'altra verità.
Ci sono quindi atmosfere di suspance, gore e indagine poliziesca, ma il film sta molto stretto sotto l'etichetta di un genere, meno sotto quella più generalista di “drammatico”. Sembra che Sono abbia tenuto volutamente a maglie larghe questi elementi per suggerire altre cose. Come una desolata solitudine esistenziale, uno sguardo triste sul proprio paese che si percepisce perlomeno un paio di volte, durante il montaggio alternato di alcuni suicidi individuali e in metro quando il commissario torna a casa. Ed è suggerita, non si dà realmente anche la risoluzione del caso: ci sono degli arresti, poi il film torna sulla pista del gruppo musicale di ragazzine, suggerita al pubblico già da un bel pezzo, ma non porta a qualcosa di soddisfacente. Suicide Club è un film che gioca più volte con bei ribaltamenti sulle aspettative come questo, come la fine delle due infermiere o i falsi allarmi per gli agenti sulla banchina della metro.
Crudo (nonostante gli spruzzi gore che accompagnano le cadute dei suicidi facciano sorridere), crudele (la telefonata dopo il massacro casalingo) e talora onirico (il “backstage” del concerto), convince meno nel segmento coi ragazzi sadico-goderecci del Suicide Club, kitsch e dove la violenza sembra rispondere un po' troppo alla volontà di stupire. Per i ragazzi suicidi del film, vita e morte sembrano alternative dal pari valore, anzi il gettarsi nella morte è affrontato come fosse un gioco, persino col sorriso sulle labbra, che solidifica per sempre un legame solidale con i compagni. Di fronte a un tale annullamento di valori (e la voce delle telefonate, per paradosso, fa prediche), la polizia brancola completamente, chiedendosi se sono suicidi o omicidi, se chi ci rimane è un criminale o meno, se c'è una forma di consapevolezza o sono emulazioni-ripetizioni del dramma visto all'inizio. Nonostante tutto, questo film mortifero si conclude con qualcosa di interpretabile come una sorta di invito alla vita, pur nella forma di un modesto balletto di teens.
A.V.

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 29 TORINO FILM FESTIVAL, 25/11-3/4/2011. WRECKED


Canada 2010. Di Michael Greenspan.

Un uomo si sveglia ferito e con una gamba bloccata all'interno di un'auto precipitata in un burrone, con un morto sul sedile posteriore ed un altro fuori, a poca distanza. Dovrà capire chi è, cosa gli è successo e sopratutto sopravvivere.
Wrecked si pone nella scia di film recenti come Buried e soprattutto Frozen o 127 ore, con uno o più protagonisti che si ritrovano nella situazione estrema dell'essere impossibilitati a muoversi, in circostanze entro cui rischiano di andare incontro ad una morte frustrante. A un terzo circa, formalmente se ne stacca, perchè il protagonista riesce a uscire dall'auto. Diventa quindi un survivor movie con qualche ritrovamento fortuito e brutto incontro, umano e animale. Il protagonista vero del film è la faccia di Adrien Brody, sanguinante e tumefatta, qualche volta in primissimi piani anche sghembi. Per fortuna l'attore è bravo e alcune volte, specialmente all'inizio, trasmette l'angoscia e il senso del vivere un'esperienza al limite tra la vita e la morte. Protagonista comunque non assoluto, Brody o il suo volto che sia, perchè può duettare con un cane che da un certo punto gli fa compagnia e lo sprona ad andare avanti e su una figura femminile-angelo custode verso cui il protagonista assume atteggiamenti ambivalenti.
Una pellicola di questo tipo la si guarda spinti dal soggetto “catchy” ma consapevoli che potrebbe non essere un gran film. Infatti il problema è che, come immaginabile, Wrecked ha poche carte da giocare. Inevitabilmente un po' annoia e ad un certo punto si spera arrivi la polizia a prendere e mettere dentro il protagonista, dato che pare essere un delinquente. Viene da pensare anche alla superfluità dei pochi flashback relativi a quanto accaduto, dato che “sappiamo già”, ma non manca un colpo di scena a riguardo, in cui si prende atto di essere stati ingannati su un aspetto ma non è che questo sposti più in alto la valutazione del film. Sui titoli di coda ci si accorge che la musica non è male (synth, battiti), ma durante il film è poco rilevata.
A.V.

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 29 TORINO FILM FESTIVAL, 25/11-3/4/2011. MOSSE VINCENTI


Tit.or.: Win Win. Usa 2011. In sala.

In concorso, quest'anno, ci sono state scelte forti, come quella di inserirvi The Raid, ma anche altre più deboli e che sanno di compromesso, come l'inclusione di questo film un po' deludente. Mike, avvocato e allenatore di lotta, assume la tutela di un anziano a inizio demenza, Leo, per incassarne la rendita spostandolo di abitazione, attribuendo la volontà di ciò ad un giudice. Il nipote di Leo si presenta, scappato di casa, a Mike, allargandone così la famiglia. Il ragazzo si rivela un notevole lottatore che fornisce nuova linfa alla squadra di Mike, ma è in rotta totale con la madre in disintossicazione che tornerà a farsi viva, così come emergerà la menzogna dell'uomo relativa a Leo. Quindi delusioni, rapporti in crisi e un finale in sordina.
Terzo film di Tom McCarthy, noto per L'ospite inatteso, è una commedia a misura d'uomo, dove i problemi esistono anche se si cerca di scansarli ma il tono è tutto sommato quietamente positivo, innervata dal tema a stelle e strisce della “second chance”: quella del ragazzo che può tornare ad essere uno sportivo vincente e quella che alla fine chiede Mike, consapevole di aver sbagliato e che cerca di sistemare le cose, non senza un prezzo. Curioso il personaggio del ragazzo, laconico, spentone e quasi antipatico. A volte si ride: memorabile la faccenda dello schiaffo pre-gara e il match contro “Darth Vader”. Il film tiene abbastanza a bada la retorica, anche se paga pegno a qualche convenzione che lo limita, non riuscendo a schiodarsi abbastanza da un'atmosfera mainstream, lasciando in definitiva tiepidi e persuasi di aver visto qualcosa adatto soprattutto al grande pubblico (si sposa il commento di un conoscente a fine proiezione: “Se lo facessi vedere a mia madre, sarebbe contenta”). Poi, che faccia comunque piacere vedere sullo schermo Giamatti, questa volta sbarbato, è chiaro. Simpaticissimo però è anche Burt Young nel ruolo del sorridente e svagato Leo. In terza posizione, l'estroverso amico che si impone come aiuto allenatore interpretato da Bobby Cannavale.
A.V.

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 29 TORINO FILM FESTIVAL, 25/11-3/4/2011. MIENTRAS DUERMES


Tit.ingl.: Sleep Tight. Spagna 2011.

Balagueró abbandona l’horror per fare incursione nel thriller puro, portandoci nella mente di un sociopatico perennemente infelice interpretato da Luis Tosar, già visto nei panni del cattivissimo ‘Malamadre’ di Cella 211. Il film è ambientato tutto in un condominio di lusso di Barcellona, dove il portiere, César, si intrufola nelle case dei condomini, combinando malefatte.
César si imbatterà in Clara, una bellissima Marta Etura (anche lei già apprezzata in Cella 211) che lo porterà a spingersi sempre più in là, anche per uno squilibrato come lui: la aspetta al rientro dal lavoro e passa le notti con lei, dopo averla narcotizzata. Ovviamente il vizietto non sarà destinato a durare tanto.
Il film funziona, è claustrofobico e tesissimo anche solo nel mostrare la squallida routine del protagonista. Balagueró cala lo spettatore nella mente perversa e nel corpo oppresso del portiere e, come da recente tradizione thrilling spagnola, non facendolo mai uscire dal palazzo infernale, se non nel cupo e crudele finale. Tosar ha tutto il film sulle spalle e riesce nella difficile impresa grazie a un personaggio costruito perfettamente. La pulsione che lo muove è semplice, umana e comune: l’invidia. Odia le persone felici e sorridenti, colpevoli di avere una vita, un lavoro e un rapporto sentimentale, tutte cose che César non ha e non ha mai avuto.Da segnalare un momento particolarmente riuscito, condito da echi hitchcockiani e stacchi di montaggio perfetti, dove la suspance fa da padrona: il malvagio César intrappolato nell’appartamento di Clara.
Alberto Viavattene

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 29 TORINO FILM FESTIVAL, 25/11-3/4/2011. ATTACK THE BLOCK

UK/Francia 2011. In sala dal 17/2/2012.

Ha divertito ed in alcuni casi entusiasmato il pubblico del festival questo Attack the Block, presentato in concorso (vincendo il premio “Mouse d’ Oro”, assegnato dalla critica web) ed opera prima del londinese Joe Cornish, già noto come attore comico e sceneggiatore di “Le svventure di Tintin: Il segreto dell’unicorno diretto da Steven Spielberg. Se a ciò aggiungiamo che i produttori sono i medesimi di Shaun of the Dead (dal quale qui ritroviamo l’irresistibile Nick Frost, nei panni di un bonario spacciatore di marijuana), e che le musiche sono curate dall’adrenalico duo britannico Basement Jaxx, le premesse potevano apparire buone.
Presentato dallo stesso regista come un incrocio tra 8 Mile e Super 8, con la felice definizione di “Super 8Mile”, il film è perfetta macchina di intrattenimento, ma troppo politicamente corretta per poter piacere a tutti. L’influenza spielberghiana è fortemente presente e per chi non ama troppo il cinema buonista del regista di E.T. la pellicola può risultare troppo infantile e priva di mordente, per poterla apprezzare appieno.
Nel quartiere popolare e multietnico di Brixton, uno degli scenari delle recenti rivolte londinesi, nonché culla artistica dei Basement Jaxx e luogo in cui sono nati o cresciuti personaggi come David Bowie e Mick Jones dei Clash, la giovane infermiera Sam viene rapinata da una gang di ragazzini, capitata dal giovanissimo Moses. Tutto normale, in un posto come Brixton, se non che proprio in quel momento un meteorite si schianta sulla zona, e non è un meteorite qualsiasi: ne escono creature aliene, dalle intenzioni non esattamente amichevoli, che in breve invadono il quartiere. Ha inizio dunque la lotta del gruppetto, che si asserraglia in un edificio dando il via a una vera e propria battaglia contro gli esseri venuti dallo spazio, trovando in Sam un’alleata dapprima riluttante, dopodichè agguerrita verso i mostriciattoli ed affettuosa nei confronti di questi teppisti dal cuore d’oro.
Il film nel complesso funziona: ritmo serrato, musiche azzeccatissime, bravi e spontanei i giovani attori esordienti, una regia assai abile ed una fotografia degna di nota, ad opera di Thomas Townend. Realizzato con un budget di circa 13 milioni di dollari, alto ma non troppo considerando che si tratta di un potenziale blockbuster, Attack the Block trova uno dei suoi principali punti di forza nella caratterizzazione degli alieni: palle di pelo che ricordano vagamente i Critters, più “neri del nero” (come lo stesso Cornish ha definito il proprio gatto, fonte di ispirazione per le creature), con occhi e denti aguzzi ad effetto uv, rotolano velocissimi e senza tregua, cattivi e voraci, regalandoci l’unica scena splatter (ma non troppo) del film, ossia il sanguinolento attacco al cattivo di turno.
Ottima la caratterizzazione linguistica dei personaggi, con uno slang reale e per noi praticamente incomprensibile: il regista è cresciuto proprio da quelle parti e per preparare al meglio la sceneggiatura è tornato in quei luoghi, per coglierne non solo la forma di comunicazione ma anche le tensioni e le problematiche sociali che li caratterizzano. La gang di ragazzini è formata da personaggi ascrivibili alla cerchia dei “buoni”, bulletti dall’animo tenero, che dichiarano a Sam di essere stati forse più spaventati di lei, durante l’aggressione.
Qui si arriva ai principali limiti del film: fermo restando che è un prodotto diretto principalmente ad un pubblico giovane, si pecca di eccessivo buonismo e di scarso senso della realtà: le baby gang non sono esattamente esempi di buoni samaritani, ed in una situazione reale Sam sarebbe probabilmente morta sgozzata dopo 5 minuti. Invece, tutti lottano insieme, ed i ragazzini non sono poi così imbruttiti da ciò che li circonda, poiché ancora sensibili, generosi, teneroni che giocano a fare i duri. Cio è poco credibile, e risulta piuttosto nauseante agli occhi di uno spettatore più smaliziato. A ciò si aggiunge la presenza di due bimbi, anche loro tutti intenti a fare i bulletti, che ci versano addosso un ulteriore cucchiaio di melassa del quale non sentivamo assolutamente il bisogno.
Un film che sicuramente avrà successo al botteghino, già osannato da molta critica ma che non può convincere fino in fondo, in quanto ben realizzato ma troppo ruffiano e melenso per risultare sincero. Avrebbe potuto azzannare sul serio, limitandosi invece a qualche innocuo morsetto qua e là, senza lasciare alcun segno.
Chiara Pani

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 29 TORINO FILM FESTIVAL, 25/11-3/4/2011. THE OREGONIAN


Usa 2011. Di Calvin Lee Reeder.

Una ragazza si risveglia sanguinante in una macchina incidentata (no, non è Wrecked al femminile). Ne esce e si trova a vagare in un mondo semideserto: strade e una cittadina in cui non c'è nessuno, se non delle presenze altamente inquietanti e bizzarre: una signora vestita di rosso e un uomo col costume di un pupazzo verde che non parlano, un tizio ansimante e barbuto, da cui rimedia un passaggio e che la porta fino a casa di lui. Con un fucile in braccio (che non le servirà), l'incontro con un gruppo di gonzi che bevono una bevanda tra la birra e il caffelatte da una tanica e scorrazzano allegri la porterà e ci porterà a chiarire meglio l'antefatto della “vicenda” e ad un colpo di scena. Se vi fa schifo quanto scritto, sappiate che non è un film facilissimo da raccontare e, sebbene poco riuscito, da rendere con le parole.
Presentato dal programma citando i nomi di Tod Browning e David Lynch nientemeno, quindi sulla carta allettante, si è rivelato sì la visione più fuori di testa del festival, ma anche una delusione e un film definibile con un termine forse abusato ma calzante: un pasticcio. E' una sorta di horror nonsense, che gioca abbondantemente le carte dell'assurdo e del perturbante. Come accennato, i personaggi che vengono a contatto con la protagonista sono uno più matto dell'altro e fanno cose strambe, degne di un sogno o della fantasia di un fumettista surrealista. Spesso, ciò che lei vede sembra far parte di visioni, provenire da collage mentali, con personaggi che appaiono e scompaiono e passaggi spaziotemporali “liberi”.
Ma il film risulta goffo, oltre che francamente fastidioso nei ripetitivi momenti di sclero estremo della protagonista, che si mette a strillare e vede gente che sanguina dalla bocca (finché pure lei sanguina e pure gli altri strillano). Non sono migliori altre idee di riporto per fare paura, come la testa della vecchia che si muove supersonica. Non male, invece, il viaggio sul furgone, con la mdp che inquadra la carreggiata che scorre nel buio, mentre sentiamo quasi un monologo del non tranquillizzante guidatore. Se una scena come quella di una pipì che “degenera”, con quella battuta finale, non può non rivelare un umorismo consapevole, altre volte non è chiaro se le risate che sorgono sono volontarie. Il pubblico, appunto, si fa prendere da un po' di stupidera ma una volta tanto non lo si può biasimare, perché non si tratta di adolescenti che cercano di smarcarsi dalla paura di un buon horror. Si resta in sala, esclamando “mah” a ritmo regolare, sbuffando e cercando di sforzarsi nel trovare del buono. Punto più basso, una scena “disturbante”, a base di sangue e uova, che fa venir voglia di essere censori e di chiedere al “buon” Reeder quel che poi vale per tutto il film: ma cosa ti era saltato in testa?
A.V.

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 29 TORINO FILM FESTIVAL, 25/11-3/4/2011. CONDITION


Usa 2011. Di Andrei Severny.

In un mondo semideserto, postapocalittico, seguiamo due ragazze. Una è sofferente di “stress post-traumatico”, l'altra è la dottoressa che la cura in modo non convenzionale, ovvero attraverso una rieducazione al suono, portandola in mezzo alla natura, tra le frasche o in riva al mare, ficcandole qualche volta un paio di cuffie sulle orecchie. La paziente fa perdere le proprie tracce, trova un uomo che vive da solo e con lui raccoglie frutti, mangia, va in barca. I ruoli in un certo senso si ribaltano e l'altra donna, rimasta sola, ne soffre.
Diciamo subito che Condition, proposto nella sezione “Onde”, è, per chi scrive, il film più brutto e punitivo visto al festival. Ambizioso, intellettualistico ma molto meno significativo di quanto vorrebbe, anzi abbastanza vuoto, punta molto sull'aspetto uditivo. I suoni sono amplificati e sentiamo spesso elicotteri, onde, foglie che si muovono, ma i risultati emozionali sono veramente modesti e aggiungendo a ciò la mancanza di capacità di suggestione anche dell'aspetto visivo, con immagini in digitale dalle tinte a volte alleggerite che lasciano quasi sempre il tempo che han trovato - a scanso di equivoci, che il tutto sia ambientato in un mondo post-catastrofe è solo suggerito - , ne consegue che la noia si impone padrona, inesorabile e dopo pochi minuti, appena si capisce di aver sbagliato film. Che dura settanta minuti, ma lungo i quali si guarda l'orologio in continuazione, più spesso dei vani richiami che la dottoressa fa al walkie talkie per un soccorso.
Il regista ha introdotto il lavoro sostenendo il bisogno di un cinema diverso: sacrosanto, ma qui questo film “diverso” fa venir voglia di rifarsi gli occhi con una commediaccia: qualcosa non va. E non si capisce quale motivo possa portare a selezionare un'opera del genere se non il nome del produttore: Amir Naderi.
A.V.

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 29 TORINO FILM FESTIVAL, 25/11-3/4/2011. BAD POSTURE


Usa 2011. Di Malcolm Murray.

Gli amici Flo e Trey vivono insieme ad Albuquerque, nel New Mexico. Flo è più introverso, Trey è più cazzone e ciulone, parla inserendo almeno una parolaccia in ogni frase e usa “bitches” per intendere “ragazze”. Non lavorano e il loro tempo scorre a ritmo rilassato: vendono e rivendono marijuana, vanno a sparare, mangiano e bevono in giro... Spinto da Trey, Flo approccia una ragazza (Tabatha Shaun, bellissima) in un parco mentre l'amico le frega le chiavi dell'auto e la rivende. Per Trey però non è finita qui: conserva il di lei portafoglio e fa in modo di rintracciarla, riuscendo a reincontrarla ad una festa.
Murray, che cura anche fotografia e montaggio del film, ha dichiarato di aver cercato di cogliere lo spirito del posto in cui ha vissuto. Spirito che però non riesce ad essere cinematograficamente interessante. I protagonisti cazzeggiano, i dialoghi sono medi, realistici, quotidiani, la regia adotta un tono congruente, risolvendo quando può con piani sequenza fissi, distaccati, oppure -in modo più interessante ma meno frequente- si muove passando da un volto all'altro giungendo quasi al particolare, come nel primo dialogo tra i due piccioncini. Il cui segmento del “racconto” bisogna ammettere che è tenero, abbastanza riuscito (anche se alla fin fine i due finiscono a letto senza tanti “ma” e l'aderenza alla vita giunge ad un'intimità quasi imbarazzante), è però sbriciolato in poche sequenze in mezzo al resto, comprese due sequenze di writing e pittura murale che fanno anch'esse sbadigliare. Perchè dopo un po' ci si chiede il motivo che dovrebbe spingere a vedere le modestissime gesta di questi due ragazzi (che dimostrano, tra l'altro, 30 e passa anni) non particolarmente simpatici e che conducono una vita che talora fa cascare le braccia (come nella sequenza del blitz violento nella casa).
Bad Posture non sfigurerebbe proiettato in una casa nella quale si stesse svolgendo una festa con invitati cannati, che ogni tanto dessero un'occhiata a quanto si dipana sullo schermo. Dello spettatore “normale”, invece, non sembra curarsi granché, procedendo per la sua strada senza scosse. Carina la scena onirica in piscina, alcune (poche) volte si ride per qualche gesto buffo. In colonna sonora, Isobel Campbell & Mark Lanegan e... Monteverdi. I due protagonisti risultano esordienti e si chiamano davvero uno Trey e l'altro Florian.
A.V.

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 29 TORINO FILM FESTIVAL, 25/11-3/4/2011. DERNIÈRE SÉANCE


Tit.ingl.: Last Screening. Francia 2011. Di Laurent Achard.

Sylvain, cinefilo, gestisce un cinema d'essai, proiettandovi l'amato French Cancan di Jean Renoir. La sala è in procinto di chiudere, cosa che non gli sta affatto bene, anche perché lui ne abita i sotterranei. Il ragazzo ha un'aria mite, pulita, ma di notte uccide regolarmente donne, tagliando loro via un orecchio che, come scopriamo ad un certo punto, applica a foto di attrici che compongono così una singolare, macabra galleria d'arte. Non riserva un trattamento migliore a chi sta per sottrargli il suo cinema, la sua vita. Una ragazza si interessa sentimentalmente a lui e Sylvain non sembra volerle riservare il solito trattamento. Alle spalle, narrato con alcuni flashback, Sylvain ha un trauma cinefilo-infantile, non convincente appieno, legato alla figura della madre (di cui tuttora venera la foto in una teca), alle di lei pretese verso di lui e al film di Renoir.
Altro film festivaliero, dopo quello di Balaguero, con protagonista una figura maschile disturbata, ma il paragone si ferma qui. Thriller-horror molto raffreddato, memore de L'occhio che uccide, come potrebbe girarlo un regista francese intellettuale, a cui non interessa affondare nel genere ma mantenersi in bilico tra esso, psicologismi e una messinscena al limite dell'esercizio di stile. Il che non vuol dire che sia un brutto film. Nel suo linguaggio freddo, con inquadrature lunghe, qualche campo lungo, niente musica diegetica e gore contenuto, non sembra accorgersi (o se ne frega) di qualche lungaggine di troppo (il piano sulla majorette) e dell'intellettualismo che sborda per esempio nell'ultima, simbolica sequenza di fronte al grande schermo, in cui sembra quasi che voglia chiedere allo spettatore “Hai capito bene?”. Ma non manca sufficiente tensione e funziona, trasmettendo un velo di tristezza e senso di fine, l'atmosfera quasi sempre buia, notturna.
A.V.

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 29 TORINO FILM FESTIVAL, 25/11-3/4/2011. 388 ARLETTA AVENUE


2011. Di Randall Cole.

L’avvento della tecnologia e di sofisticate apparecchiature di monitoraggio hanno reso sempre più labile il concetto di privacy: siamo tutti potenzialmente a rischio di spionaggio domestico, come testimoniavano già negli anni 70 thriller del calibro de La conversazione di Francis Ford Coppola. Lo stesso presupposto sembra essere alla base di questo thriller indipendente canadese, che muove i suoi passi dall’idea che una coppia di sposini a Toronto cada nel mirino di uno psicopatico che trascorre le giornate a spiarli e pianificare le proprie mosse per trasformare la loro esistenza in un incubo. Girato tutto in video HD e adottando il punto di vista dello stalker, il film ci introduce gradatamente nell’intimità dei coniugi che ignorano di essere controllati e filmati. Scopriamo che la loro unione non è così salda, ci sono dei problemi; le loro abitudini diventano per noi familiari, sussultiamo di fronte alle birbonate del maniaco, al principio scherzi innocui anche se fastidiosi poi intromissioni sempre più allarmanti che sfoceranno ben presto nell’intimidazione e nella violenza. I referenti sono tanti, da pellicole come Peeping Tom di Michael Powell, Black Christmas di Bob Clark e Someone Is Watching Me di John Carpenter al Richard Matheson di raccontini crudeli tipo Il dispensatore. La tensione c’è e gli interpreti sono decisamente in parte; non mancano i pugni nello stomaco ma sono ben dosati, la sceneggiatura non concede troppo al ribrezzo ma quando lo fa lo spettatore non se lo scrolla di dosso facilmente. Un suggestivo mix di voyeurismo e paranoia (il desiderio di smascherare il persecutore trascina il protagonista maschile e noi con lui in un vortice di sospetti e panico) che tiene incollati alla poltrona, una visione delle possibilità narrative offerte da un tema stra-abusato della narrativa del terrore basato sul concetto di minaccia che fa irruzione nel quotidiano.
Corrado Artale

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 29 TORINO FILM FESTIVAL, 25/11-3/4/2011. A CONFESSION


Tit.or.: Ganjeung. Corea del Sud, 2010.

Presentato in concorso ed accolto in maniera piuttosto tiepida, questo A Confession è una pellicola particolare, che colpisce e lascia uno strascico tangibile dopo la visione. Opera prima del giovane Park Su-min, classe 1981, il film si distingue per il rigore stilistico, la freddezza e la lucidità del racconto, la solennità dell’ intero impianto narrativo. Si parla, ancora una volta, (anche) di vendetta, tema assai caro alla cinematografia coreana, ma in modo diverso rispetto a film a noi noti, come la splendida trilogia di Park Chan-wook o il bellissimo I Saw The Devil di Jee-woon Kim. Qui abbiamo un ritmo molto lento, quasi pacato, per un concetto di nemesi che serpeggia sotto la pelle fragile di un cattolico perdono.
Il film narra la storia di Park Duk-joon, anziano ex-poliziotto, e “specialista in interrogatori” (ossia, torturatore), che vive come per forza di inerzia, con lo sguardo perennemente basso; oppresso dalla solitudine, dall’insonnia e dal suo passato, l’uomo sopravvive ri-esercitando, occasionalmente, la sua attività per conto di un gruppo di malviventi. Si aggrappa disperatamente alla fede, in un conflitto interiore che lo annulla.
Qualcosa sembra cambiare, quando incontra la signora Lee, amica che potrebbe diventare un amore, anche lei profondamente cattolica. Lo invita ad un incontro in chiesa, durante il quale, in modo inaspettato, ritrova il suo superiore di tanti anni prima, quando entrambi estorcevano confessioni per mezzo della tortura, e sotto l’egida dell’ essere poliziotti. Determinante sarà anche l’ incontro col giovane nipote della donna, che farà riaffiorare in lui ciò che non si è mai realmente sopito.
Ritratto di una disperazione, ma non solo: il personaggio di Park Duk-joon è sfaccettato, in bilico tra una fede ipocrita solo in parte e la propria, vera natura che tenta di soffocare. Il giovane regista conosce la storia del proprio Paese, e ne fa background dell’ intera pellicola; la polizia usava legalmente la tortura come metodo di interrogatorio ai tempi del conflitto con la Corea del Nord, dunque il concetto di poliziotto e torturatore si fonde, a simboleggiare il conflitto interiore del protagonista: chi in teoria dovrebbe rappresentare la giustizia ne praticava l’ esatto contrario. L’anziano ex-aguzzino è il frutto inaridito di quella prassi, l’ uso della violenza un tempo impostogli per mestiere, si è insediato come un seme avvelenato nella sua coscienza, con la quale fa quotidianamente i conti. Cerca salvezza nella fede cattolica (ampiamente diffusa nella Corea del Sud) in modo quasi compulsivo, fede che si rivela effimera, inutile; per buona parte del film la religione ci appare come monolitico pilastro, per poi crollare, completamente, nel finale, che rimette tutto in discussione, e fa cambiare l’ottica con la quale ci si è approcciati alla narrazione. La vendetta arriva in modo silenzioso, in sordina, ma è come se fosse stata pazientemente in agguato per tutto il tempo. Il protagonista è ingiudicabile, non ascrivibile alle manichee distinzioni tra “buoni e cattivi”, in perenne bilico tra un Male che lo divora e un Bene posticcio sul quale cerca, disperatamente, di arrampicarsi.
Il titolo internazionale è, in realtà, fuorviante: il regista stesso ha spiegato che la parola “ganjeung” ha il significato di “redenzione”, piuttosto che di “confessione”. In quest’ottica, il ribaltamento di messaggio del film è ancora più evidente, ed il reale significato del titolo suona tristemente ironico. La regia è sobria, rigorosissima nella forma, forse non ancor matura ma in ogni caso promettente. La fotografia è algida, a simboleggiare una costante assenza di emozioni, un vuoto interiore dal quale non c’è scampo.
Il protagonista tortura tramite l’acqua: bellissime le le sequenze alle terme, qui inusuali luoghi di violenza; acqua che non purifica, che non cura, che si fa limpida arma di una violenza prima meccanica, eseguita su commissione, poi viscerale, residente nell’ anima.
Un film forse non perfetto, penalizzato anche dal ritmo eccessivamente lento ma che resta accanto allo spettatore anche dopo i titoli di coda, strisciante, come la vendetta che lo pervade.
C.P.

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 29 TORINO FILM FESTIVAL, 25/11-3/4/2011. THE RAID


Tit.or.: Serbuan maut. Indonesia 2011.

Una squadra d'assalto deve affrontare un compito delicatissimo: assaltare ed espugnare un palazzo della delinquenza, sede di un potente boss e abitato dai suoi complici e aiutanti. Per i primi piani il blitz sembra filare quasi bene, poi la situazione sfugge di mano perchè viene dato l'allarme e la feccia si scatena contro gli agenti. Piovono morti e il muoversi tra i corridoi e tra i piani sarà un'impresa per i pochi “buoni” sopravvissuti, tra cui l'agente Rama -quel che più si avvicina ad essere un protagonista-, che capiranno come il loro capo li abbia spinti a questa missione suicida per sporchi affari personali.
La premiata ditta composta dal regista (anche sceneggiatore e montatore) irlandese trapiantato in Indonesia Gareth Huw Evans e l'atleta-attore Iko Uwais torna, dopo Merantau, con questo pazzesco film “di menare” basato sull'arte marziale locale Silat, la visione più esplosiva del festival, che con scelta coraggiosa e sorprendente è stato inserito in concorso, rivelandosene non indegno o comunque non meno di altre pellicole meno sopra le righe e di genere. Velocità e violenza danno i brividi, l'ambientazione funziona alla grande, la suspance è persino esasperante (un esempio: la sequenza in cui l'agente, nascosto da un inquilino non delinquente, viene ferito alla guancia ma non deve farsi sentire) e, nota di merito, non ha cali nelle sequenze di dialogo, il che dice di un regista attento e dotato, che si applica a quanto sta narrando e che fa del “cinema”. Ci si sente fessi a pensare che il film pecca per eccesso, trattandosi di un action violentissimo e colmo di mazzate, ma chiariamo: il suo limite è l'essere talmente intenso da fare quasi il giro al punto che qualche volta, durante le mosse inevitabilmente alla lunga ripetitive (perché si inizia sparando, ma poi hanno la meglio le mani nude), ci si ritrova a pensare ai fatti propri per qualche istante.
Truce sì e non privo di accenti seri relativi ai personaggi e a quel po' di storia che c'è, ma anche ludico, come rivela la sequenza in cui lo sgherro più cattivo potrebbe sparare ad un agente ed invece lo invita a lottare con lui, oppure come il lungo combattimento due contro uno, climax del film che alla fine fa applaudire il pubblico, in cui si continua a picchiare anche mezzi morti o con braccia che dovrebbero essere già fuori uso, mentre in colonna sonora si ode una lunga sirena. Un passo avanti rispetto al pur dignitoso Merantau, anche se, leggendo che dovrebbe essere il primo capitolo di una trilogia con lo stesso protagonista, ci si chiede cosa diamine vedremo la prossima volta.
A.V.

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 29 TORINO FILM FESTIVAL, 25/11-3/4/2011. THE DESCENDANTS


Usa 2011. In sala dal 24/2/2012.

Matt è un avvocato che risiede alle Hawaii e la cui famiglia discende dai reali dell'isola. Da un pezzo in rotta con la moglie, quando questa finisce in coma dopo un incidente in barca (la vediamo in forze solo nell'inquadratura che apre il film), deve recuperare il rapporto con la figlia più piccola e quella un po' più grande. Insieme ad un amico di questa, stupido e inopportuno, la rinnovata famiglia gira per le Hawaii per comunicare la notizia ai parenti e a una persona di cui Matt non sospettava l'esistenza: l'altro uomo con cui sua moglie aveva una relazione. In secondo piano, deve occuparsi, insieme al parentado, della vendita di un pezzo di terra vergine dell'isola, su cui si vuole costruire.
Era da Sideways (2004) che Alexander Payne non firmava un lungometraggio e questo suo ritorno è il miglior film tra i nuovi visti al festival. Ben scritto, misurato, delicato e divertente, ma soprattutto commovente. Chi si aspetti una commedia media (pardon) sarà colpito dalla pregnanza del tema del lutto, che è in primo piano. Il film è la storia della controversa elaborazione di un lutto in arrivo, della sgangherata composizione di un “nuovo” gruppo familiare e, in dirittura d'arrivo, della voglia di un riscatto che si traduce nel non subire soltanto gli eventi.
Evita banalità e momenti dolciastri piegandoli, nel caso, a un sorriso e non commette sbagli in sequenze "cruciali" tipo quella della "famiglia" davanti al letto d'ospedale, nelle quali si ha la piacevole sensazione di stare vedendo un film riuscito, la cui creazione in sede di sceneggiatura non va a scapito della qualità delle emozioni che si provano.
In colonna sonora, numerosi momenti di canzoncelle in stile hawaiiano, la cui forte presenza non urta perché sottolinea le cose senza un effetto artificioso. Si possono, poi, fare tutte le ironie che si vuole su George Clooney e le sue fidanzate vere o finte, ma resta il fatto che in film come questo risulta perfetto, ha charme ed è simpatico. Ma se il terzetto familiare funziona vuol dire che non sono neanche male le due fanciulle.
A.V.

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 29 TORINO FILM FESTIVAL, 25/11-3/4/2011. L'ERA LEGALE


Italia 2011. In sala dal 13/1/2012.

“Come Amore ha battuto Camorra”, recita la tagline di questo mockumentary diretto dal regista di Blek giek. Amore è il cognome di Nicolino, outsider assoluto della politica che, si racconta, è riuscito entro il 2020 a cambiare profondamente Napoli. Il film ripercorre la storia personale e pubblica di questo personaggio immaginario, interpretato dal Patrizio Rispo notissimo per Un posto al sole, che con la sua franchezza riesce a diventare sindaco della città e a rinnovarla e ripulirla, combattendo i traffici della camorra e facendo ritrovare ai cittadini il senso civico. Certo non senza battute d'arresto, tra l'opposizione che incontra in consiglio, un misterioso rapimento e la contestata decisione di legalizzare le droghe. E' soprattutto su questo tema che il film si diffonde, quasi come fosse un dibattito, allargando per forza di cose il discorso oltre Napoli e includendo pure qualche accento serio.
Ma è anche ciò su cui cade maggiormente, diventando troppo didascalico e didattico. Spesso sembra una lezione su quanto si dovrebbe o potrebbe fare per Napoli, servita in salsa umoristica e questo è più di un sospetto, come dimostra il cartello finale del tipo “Ora tocca a noi”. Si comprende come il film esprima una volontà di risalita della città campana (alla prima era presente anche Luigi de Magistris), ma più che al grande schermo L'era legale pare adatto ad una proiezione televisiva oppure all'interno di una convention o riunione pubblica.
Il ritmo è buono, il livello di divertimento accettabile (i nuovi comportamenti dei napoletani...) ma l'aspetto più impressionante è la quantità e qualità delle persone coinvolte come finti testimoni od opinionisti intervistati: Isabella Rossellini, Renzo Arbore, Carlo Lucarelli, Giancarlo de Cataldo, il deputato di Fli Granata, qualche giornalista straniero, procuratori e magistrati antimafia, un direttore di carcere. Mai visto un product placement così sfacciato (“messaggio promozionale”!) come quello della pasta Garofalo in una sequenza.
A.V.

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 29 TORINO FILM FESTIVAL, 25/11-3/4/2011. INTRO


Usa 2011.

Nella sezione “Onde” si è visto questo documentario-road movie asciugato che segue vita, spostamenti e performance del cantautore David Williams, qualche volta accompagnato dalla incantevole Jeremi Hanson. Williams sistema gli strumenti, si fa il caffé, programma e prova a casa, ronfa, guida, si esibisce nei locali, cammina in cornici naturali. Quest'ultimo aspetto starebbe a significare il legame della musica Usa col paesaggio, secondo alcuni, ma certe pose “artistiche” che Williams assume fra le rocce sembrano ricercare occasionalmente la bella immagine.
Ci sono i silenzi, ci sono le sue canzoni e poche parole oltre a quelle dei loro testi: l'artista dice di sè attraverso quel che fa e quel che canta. A Cahoon non interessa assolutamente cercare di illustrare le canzoni del suo musicista, ma, afferma, il film è il tentativo di comprendere l'uomo, la sua musica e l'effetto che gli fa. E la musica di Williams, voce e chitarra, è buona, “vera”, toccante, malinconica. Bene così, perché bisogna ammettere che fosse stata mediocre, la noia avrebbe fatto più che capolino.
Sicuramente la visione più rilassante del festival (pure troppo, per alcuni che hanno abbandonato la sala). Cahoon spesso punta la mdp su gesti e oggetti invece che sul volto dell'artista e nelle performances nei locali fa pochi controcampi sul pubblico. Lascia perplessi il fatto che nell'ultima parte, volontariamente?, il tutto diventi un po' più tradizionale: lui e lei sul palco che cantano, in primo piano, poi in campo lungo all'interno di una stanza.
A.V.

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 29 TORINO FILM FESTIVAL, 25/11-3/4/2011. TWIXT


Usa 2011.

Annunciato poco prima della partenza del festival, il nuovo film di Francis Ford Coppola conferma di un regista che nonostante la fama e l'età è tutto fuorché adagiato su allori o sulla maniera ed in grado di stupire progetto dopo progetto; stavolta, però, maggiormente sulla carta e con risultati poco soddisfacenti.
Uno scrittore horror in difficoltà con mestiere, moglie e che non ha ancora ben assimilato la morte della figlia, capita in una cittadina che conserva nel suo passato il massacro di un gruppo di bambini e -ine ad opera di un ministro del culto. Nel suo presente, c'è una ragazzina uccisa come si usa fare coi vampiri e uno sceriffo che vuole fortemente co-firmare con il protagonista un romanzo sui fatti. In sogno, lo scrittore conosce una giovanissima vampira (Elle Fanning) ed Edgar Allan Poe che lo conducono ad assistere al massacro pretesco, fornendogli così utile ispirazione. Sogno e vita lo metteranno in pericolo ma anche in condizione di scrivere il libro necessario per la sua carriera.
Ispirato ad un sogno del regista, che l'ha anche scritto, Twixt è un lavoro minore nella sua filmografia ed appena partono i titoli di coda è inevitabile e immediato il pensiero: beh, ma tutto qua? Peccato. Il 3D è limitato a due sequenze, introdotte, in modo ludico-vintage, da occhialoni che passano sullo schermo: una cerca di creare vertigine, con una salita su scala, l'altra è la più gore e baracconesca che però non funziona granchè, anche solo visivamente. “Vintage”, per così dire, sono anche gli split screen a cui più volte Coppola fa ricorso. Se le immagini del sogno sono curatissime, in bianco e nero con singoli elementi colorati (i limoni, il sangue dell'estetizzato massacro), quelle del piano del presente sono piuttosto, un po' troppo, medie. Se, comunque, ci sono delle scelte di linguaggio che contribuiscono a non rendere il film piatto, sul piano della vicenda e della suspance va ancora meno bene. La storia è in definitiva poco interessante e scopre alcune sue carte senza sorprendere - il responsabile del vecchio fatto di sangue è presto dichiarato - , almeno fino ad alcuni veloci colpi di scena finali e il ritratto della comunità di darkettoni è goffo e fa pensare ad una persona di una certa età che non riesca ad acchiappare il presente. In tutto ciò, Val Kilmer, che fuori dallo schermo si sente sfottere per il suo essere ingrassato rispetto al periodo di successo, fa il suo, risultando anche simpatico, anzi in una delle scene dai toni leggeri del film – quando il personaggio è al pc sforzandosi nell'ispirazione creativa – , Coppola gli dà un'occasione di fare praticamente il commediante.
Del “nuovo corso” di Coppola (dal ritorno del 2007 in qua), era più interessante Un'altra giovinezza, che aveva un contenuto maggiormente esistenzialista. Non si dubita, comunque, che critici intellettuali o intellettualoidi potranno prenderlo per un capolavoro d'autore di grande portata teorica, perchè di ciccia a riguardo il film ne offre: è un film sulla creazione artistica, con un protagonista che viene consigliato, guidato da un nume e poi lasciato per la propria strada ad affrontare il proprio dramma interiore e trasferirlo in creazione artistica. Ed è anche lo stesso Coppola che, nella sequenza della rievocazione dell'incidente, allude con coraggio alla morte di uno dei suoi figli, Gian-Carlo. Non male la scena in cui, in sogno, lo scrittore mette in bocca al personaggio che ha di fronte le proprie parole.
A.V.

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 29 TORINO FILM FESTIVAL, 25/11-3/4/2011. EITHER WAY


Tit. or.: Á annan veg. Islanda 2011.

Finnbogi e Alfred sono due addetti alla manutenzione stradale, che lavorano insieme rifacendo la segnaletica orizzontale e sistemando paletti in strade sperdute. La loro situazione quanto a donne è la seguente: il primo è fidanzato con la sorella del secondo che, arrapato cronico, non vede l'ora di andarsene via nei giorni liberi per potersi fare alcune che ha in mente, anche se non sempre gli va bene. Finchè nelle loro vite private non si annuncia una rivoluzione, perchè uno viene lasciato a distanza e l'altro si scopre in procinto di diventare padre. Dopo una furiosa lite, tra i due si delinea una nuova amicizia ed alleanza.
Ha vinto il festival di quest'anno, questo film scritto e diretto dall'esordiente Hafsteinn Gunnar Sigurðsson, che firma anche il soggetto insieme all'interprete di Finnbogi. Chi scrive ha visto pochissimi film in concorso, ma pur non essendo un premio scandaloso, ci si chiede se nessun'altro film meritasse di più.
Film ad andamento lento, coi due protagonisti soli in scena per la gran parte del tempo, isolati nel loro mondo di lavoro e di chiacchiere dentro cui irrompono conseguenze di eventi esterni. Le altre presenze umane sono quelle di un camionista che compare un paio di volte, fermandosi, stappando bottiglie coi denti e offrendole e quella più misteriosa di una figura femminile immaginata e simbolica, miraggio della donna che nell'universo narrativo sullo schermo non c'è e monito: della donna, che lo si voglia o no, non si può fare a meno, l'altro sesso esiste, modula e cambia la vita. Alcune volte si ride -Alfred è personaggio simpatico, più loquace dell'altro-, ma è un film che si guarda attendendo vanamente di esserne conquistati, forse più piacevole a raccontarsi (e quindi a sunteggiarlo) e a rifletterci a bocce ferme che non a vedersi. Non è e non vuole essere esplosivo e ha quasi sempre un suo rigore.
Alcune inquadrature non sono male: le sagome scure dei due all'orizzonte che lavorano, il cielo che muta mentre sentiamo le poche canzoni pop che formano la colonna sonora e che si rivelano poi diegetiche - il film è ambientato negli anni Ottanta - . Il regista evita la macchina a mano e il formato è panoramico, il che permette di inserire le figure umane in un paesaggio di cui in questo modo si valorizza l'ampiezza, l'apparente mancanza di confini.
A.V.