domenica 30 novembre 2008

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 26° TORINO FILM FESTIVAL, 21-29/11/2008. TONY MANERO


Cile/Brasile 2008. Di Pablo Larrain.

E' l'unico film in concorso che chi scrive ha visto, ma non era difficile ipotizzare per esso qualche premio, che infatti è arrivato: miglior film, miglior attore protagonista, premio Fipresci. Interpretato in modo straordinario da Alfredo Castro, Raúl è un uomo ossessionato dal Tony Manero della Febbre del sabato sera. Si reca a vedere quando può il film balbettandone i dialoghi -forse tra le più tristi scene ambientate in una sala cinematografica-, e cerca di imitarlo mettendo in piedi un balletto insieme alla sua "famiglia". La ricerca del vestito, della pavimentazione adeguata sembrano essere le sue uniche preoccupazioni. Ci sono dei "ma": Raul è un assassino, un uomo oscuro e laconico -ma nel film è raro vedere sorrisi da parte di chiunque-, che uccide a volte senza apparente motivo, a volte per bisogno, a volte per rabbia. La violenza estemporanea di Raul è talora elisa, efficacemente. E siamo nel Cile della dittatura di Pinochet. Il clima politico disgustoso è messo in luce con tocchi anch'essi efficaci: gli scagnozzi con la loro frase-condanna a morte "C'è un procedimento in corso", il memorabile scambio di battute "Dobbiamo restare tutti uniti per lavorare a questo ballo", "Tutti uniti? Zitti, comunisti di merda!". Al clima di paura fanno da contraltare (richiamando vagamente il contrasto torture/spettacoli di massa di Garage Olimpo) i modesti lustrini dello show tv che dovrebbe regalare la gloria a Raul, uomo che ha scelto un modello difficilmente eguagliabile e che non può dargli vera soddisfazione, nonostante paia dare un senso alla sua vita, donandogli un punto di riferimento, sebbene poco concreto, e delle cose da fare.
L'approccio registico è implacabile e sta tra la vicinanza fisica ai personaggi, ai volti, attraverso la camera a mano, e un grado di distacco gelido nell'osservare una realtà squallida: il nucleo familiare di Raul è promiscuo, con il culmine raggiunto dal rapporto "mancato" tra padre e figlia, scena fortemente erotica (ma è da segnalare anche un lampo hard). L'assenza di commento sonoro extradiegetico e il concentrarsi sul nucleo di personaggi principali (chi/quanto si vede del mondo "fuori"?) catturano l'attenzione spettatoriale e rendono opprimente il clima. Chiusura ottima, all'insegna di una drammaticità totale ma trattenuta (che porta alla mente Un borghese piccolo piccolo). Film venato di un umorismo che si spegne sulle labbra, non è per impressionabili e per depressi, ma tenetelo d'occhio quando uscirà in sala.
Alessio Vacchi

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 26° TORINO FILM FESTIVAL. DREAMCHILD


UK 1985. Di Gavin Millar.

Questo è un film che suscita sentimenti particolari, non propriamente positivi. Parte con modesti scambi di battute tra pupazzi e prosegue poi introducendo un personaggio di anziana protagonista sgradevole. Il commento di un amico ("Speriamo che muoia 'sta vecchia") testimonia come il personaggio intepretato da Coral Browne sia antipatico andante: sarà voluto, ma non agevola la visione. Rigida, presuntuosa e scostante, anche con la sua giovane pupilla accompagnatrice, l'ex musa del Lewis Carroll che scrisse Alice nel paese delle meraviglie intraprende un viaggio fisico in America, per il centenario della nascita del reverendo scrittore; ed un viaggio più mentale, a base di visioni in cui rimembra il suo passato di bambina e contatti col mondo fantastico creato da Carroll. Ci sono momenti abbastanza spietati nel sottolineare la vecchiaia, l'avvicinarsi della fine per la protagonista (le stesse creature la maltrattano verbalmente in tal senso).
Come immaginabile, la signora si ammorbidirà pian piano e infine si commuoverà, comunque: c'è qualcosa, come detto, che non gira a dovere, l'amalgama di personaggi sgradevoli (la vecchia, il giornalista figo) o patetici (la giovinetta), elementi infantili ed altri più adulti. Comunque, ci sono aspetti interessanti: le creature di Jim Henson, che sono volutamente "brutte", un pò da incubo e soprattutto il rapporto tra il reverendo e la bambina, in cui l'uomo, intepretato da Ian Holm, lascia ben intendere un sentimento di adorazione per lei che ha a che fare con la pedofilia (questo è uno di quei film in cui le ragazzine sono adorabili e vorresti abbracciarle, cosa che non sempre capita nella realtà...). Emozionato, Hodgson-Lewis Carroll si fa anche sgamare dalla piccola Alice, che qualcosa pare capire (nella scena in barca). Il che, bene o male, rende questa ricognizione intorno al mondo di Alice non per bambini.
Alessio Vacchi

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 26° TORINO FILM FESTIVAL. IMMACOLATA E CONCETTA, L'ALTRA GELOSIA


Italia 1979. Su dvd Ripley.

Nella sezione L'amore degli inizi, Salvatore Piscicelli ha presentato il suo film d'esordio. Storia d'amore lesbico in una cittadina del sud Italia, tra la sposata con figlia Immacolata (Ida di Benedetto) e Concetta (Marcella Michelangeli). La loro relazione nasce in carcere, ma con scelta originale noi iniziamo a vederla solo quando entrambe sono libere e si reincontrano. Le protagoniste, in particolare il personaggio di Ida di Benedetto, sono forti, orgogliose: "Mi piace essere libera, fare quello che mi padre", "Non sono io che ho bisogno di te, sei tu che hai bisogno di me", dice al marito. Ma l' "altra gelosia" del titolo indica che non ci si deve aspettare una più tradizionale storia in cui le due vengano punite per il loro scandaloso amore. Sì, "la gente chiacchiera", si sente dire: ma questa gente, nel film, praticamente non si vede. Piscicelli e la cosceneggiatrice Carla Apuzzo si tengono concentrati su personaggi e vicenda, senza digressioni. E gli uomini, nel film, o soccombono arrabbiati (il marito di Immacolata) o vengono a turbare, col loro appetito sessuale, l'unione tra le donne (il viscido Ciro). Il tutto si concluderà drammaticamente, con un atto che chiude un cerchio apertosi col primo gesto violento di Marcella. Di impatto le scene di sesso, che il regista ha raccontato di aver tenuto volutamente lunghe per poter agevolmente tagliare in caso di obiezioni censorie: che, incredibilmente, sono arrivate solo con l'unica scena etero.
Un film che, a detta dello stesso regista, utilizza forme di espressione popolare (alla fin fine si tratta di un melodramma, e i titoli di testa e di coda scorrono su un motivo tradizionale; l'ambientazione, poi, è "bassa"), di ambientazioni e fotografia realistiche, spoglio, anche dal punto di vista sonoro (riempito in sala dal frusciare della copia); al contempo, c'è qualcosa di dilatato e di "teatrale" nella recitazione che all'inizio può fare sorridere, ma è molto probabilmente consapevole.
Alessio Vacchi

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 26° TORINO FILM FESTIVAL. HUNGER


UK/Irlanda 2008.

Un illustre omonimo, Steve McQueen, esordisce alla regia con questo potente film, provocatorio, senza sconti e multiforme. Hunger è divisibile in diverse tranches: una lunga apparente introduzione in cui McQueen sta su un personaggio che non è il protagonista, la parte di lotta carceraria in cui il film sembra prendere la forma di un prison-movie "hard", per poi spiazzare con un lunghissimo piano sequenza di dialogo a camera fissa (complimenti agli attori, che si scambiano le battute magistralmente) e proseguire concentrandosi sul martirio che il protagonista si autoinfligge con lo sciopero della fame. Un limite che il film ha alla base è che il problema affrontato -la protesta, da parte dei detenuti appartenenti all'IRA, per il mancato riconoscimento dello status di prigionieri politici- possa far pensare qualcosa tra il "machissene" e il "fatti loro" allo spettatore, tantopiù che si viene immersi nelle cose senza particolari appigli di conoscenze su antefatti e personaggi. Ma va detto che da un lato il film supera questo con la forza del filmico e del profilmico, dall'altro pare porvi una pezza con la citata sequenza dialogica, che funge anche un pò da quiete dopo la tempesta, tra il sacerdote e Bobby Sands, in cui si parla di ragioni della lotta e della sensatezza o meno di morire e portare altri alla morte, per proseguire con coerenza fino alla fine e non cedere. Quello del sacerdote non è l'unico personaggio per così dire "dall'altra parte della barricata" che McQueen isola: c'è il poliziotto con cui si apre placidamente il film e, più brevemente, il giovane agente pestatore.
Il film affronta una questione politica (un paio di discorsi della Thatcher si odono in voice over) da un punto di vista non astratto, ma mostrando il calvario di qualcuno che ha scelto da che parte stare in modo assoluto. Diventa così una pellicola sulla determinazione e sul corpo, o meglio: su una determinazione ferrea che si esplica su un corpo che è (auto)condannato a portarne i segni. Da notare la performance fisica degli attori che intepretano i prigionieri, tra nudi e violenze prima e poi con lo smagrimento di Michael Fassbender che interpreta Bobby Sands (la mente va al Christian Bale de L'uomo senza sonno).
Alessio Vacchi

domenica 16 novembre 2008

Tra pagina e schermo. IL 13° GUERRIERO


Tit. or.: The 13th warrior. Usa 1999. Su dvd Buena Vista.

Un romanzo che potremmo quasi definire “antropologico”, Mangiatori di morte: nel narrare l’incontro fra un ambasciatore arabo e un clan vichingo, Michael Crichton s’era divertito a sottolinearne le differenze culturali e il comprensibile imbarazzo da parte di entrambe le fazioni, così dissimili in usi e costumi e nella concezione che possiedono del mondo che le circonda. Come può un arabo giustificare la pratica dei sacrifici umani con cui i vichinghi onorano la dipartita di un guerriero? Come far capire a dei vichinghi sbevazzoni il valore che un buon musulmano dà all’astinenza dall’alcol? Simili problematiche non sfiorano più di tanto la trasposizione cinematografica di John McTiernan: al regista interessava realizzare un buon film d’avventure, quindi si è concentrato sugli aspetti del romanzo che meglio rispondevano al progetto, tralasciando il resto. Qualche accenno umoristico alla cavalcatura del protagonista, oggetto di dileggio da parte dei rustici danesi che la paragonano ad un cane per le dimensioni ridotte; un buffo episodio in cui l’ambasciatore mediorientale si vede concedere una licenza alcolica e può partecipare alle libagioni organizzate dai suoi ospiti, in quanto la loro bevanda è Idromele e quindi non strettamente vietata dal Corano (lì la proibizione riguarda qualsiasi estratto dall’uva).
Facezie hollywoodiane che tralasciano l’interessante esempio di “narrativa da viaggio” fornito dal testo di Crichton; e la lotta dei vichinghi contro una misteriosa tribù paleolitica dedita a riti cruenti e ad un arcaico culto in onore dell’Orso (episodio presente anche nel romanzo) accentua i toni orrorifici, trasformandosi in una lotta all’ultimo sangue fra Luce e Oscurità, civilizzazione e barbarie. Elementi assenti dal libro, dove anzi viene tracciato un interessante parallelismo fra le due civiltà, apparentemente lontane nel tempo ma accomunate da analogo senso di appartenenza ad un nucleo sociale che difende la propria esistenza e guarda con sospetto ad elementi estranei. Quanta differenza corre effettivamente fra gli efferati adoratori dell’Orso e i selvaggi Berserker vichinghi? In fondo, è possibile che gli uni discendano dagli altri. In tal senso viene radicalmente modificato anche il finale del libro, decisamente più ambiguo e irrisolto dell’ending eroico concepito da McTiernan per il film (decisamente più adatto alle platee in cerca di un innocuo action d’evasione). La scelta del fascinoso latino Antonio Banderas come attore protagonista ben riassume la visione ludica e poco interessata alla verosimiglianza storica dei produttori.
Corrado Artale

Focus on. Chuck Norris: TRIADE CHIAMA CANALE 6


Tit. or.: An eye for an eye. Usa 1981. Di Steve Carver. Su dvd Universal.

Si comincia con un dramma tipico del genere: l'agente Chuck -che stavolta non ha i baffi- perde il collega durante una missione che va a male. Come non bastasse, il suo superiore lo cazzia: e lui molla distintivo e pistola. La donna del defunto, una giornalista, viene fatta fuori. Dietro, ci sono gli affari delle triadi hongkonghesi. Chuck-Sean Kane si rivolge all'amico James Chan -intepretato dal veterano Mako, scomparso da pochi anni- che lo aiuterà a difendersi dagli attacchi e a dare l'assalto alla gentaglia del caso. Chuck Norris torna ad avere a che fare con l'oriente in questo filmetto che funziona a livello basico, e che può tornar buono per un pomeriggio in cui non si sa che fare.
Non mancano ricorrenze dei film che lo vedono protagonista: l'allenamento al sacco con i flashback del passato che pesano (tanto che l'oggetto cade per la forza dei colpi!), una sequenza di attacco notturno ai nemici, e un personaggio femminile che bene o male lo aiuta. Quando entra in scena questa collega della giornalista uccisa, si capisce già che lei sarà la donna di Chuck per questo film. Mica solo James Bond deve fare conquiste..., comunque ci viene risparmiata la breve scena di prammatica a letto.Nomi illustri nel cast, senza molte scene: Richard Roundtree (Shaft, per dirne uno) è il capitano di Norris, che dopo avergli dato il benservito si limita comodamente a tampinarlo, seguendo il suo percorso verso lo sgominamento dei malvagi. Christopher Lee (secondo nome nei credits) interpreta un distinto figlio di cagna e il suo aplomb rende gradevolmente il personaggio. Ma da segnalare è soprattutto il cattivo grosso e zoppetto, che porta alla mente l'Oddjob di Agente 007 missione Goldfinger. Uno dei momenti di culto del film è lo scontro finale tra Chuck e il titanico bastardo. I colpi del primo sembrano non fargli nulla, e viene sbatacchiato come un sacco. Ma ad un certo punto l'agente si concentra e, mollandogli tre calcioni in volto al ralenti -stavolta funzionanti-, lo stende. L'altro momento notevole è quando Chuck, arrabbiato, sgancia la sua auto dal carro della rimozione forzata, e l'addetto, capendo che non è il caso di discutere, lascia perdere: grande catarsi per tutti quelli che ce l'hanno con vigili e tutori del traffico vari (senza mai assumersi colpa). Le musiche suonano telefilmiche, ma d'altronde, a vedere questi film nel fullscreen in cui li si trova facilmente, risultano consone. Titolo italiano, bisogna dirlo, più simpatico dell'originale.
Alessio Vacchi

Memorabilia. IL GIUSTIZIERE GIALLO


Meglio non avere a che fare con questo Giustiziere giallo, protagonista del film del 1973. Nel decantare la potenza del personaggio si citano gli arti d'acciaio, e non è l'unica volta nei titoli italiani. L'immagine propone una classica posa di violenza, ma nelle locandine del genere si trovano ben altri, buffi, eccessi.
Alessio Vacchi

domenica 9 novembre 2008

Incompresi. Comici allo sbaraglio: OGNI LASCIATO È PERSO


Italia 2001. Su dvd Columbia.

Il Pierfrancesco Favino dell'attualmente in sala L'uomo che ama non è stato mica il primo attore a portare sullo schermo la sofferenza maschile amorosa... Ogni lasciato è perso è il primo film che Rita Rusic produce dopo la rottura con Cecchi Gori, insieme alla sorella Lierka. Allora ci si aspettavano grandi cose dalla Rusic, in quanto presunta forza propulsiva dell'ex marito, ma con i film che ha prodotto da sola non l'ha di certo sempre imbroccata. L'esordio al cinema di Piero Chiambretti avviene dopo anni di titubanze e progetti non andati in porto (tra cui la partecipazione al vanziniano Sognando la California*). Il conduttore, da poco uscito da una storia d'amore, sceglie un plot che ha dell'autobiografico: impersona appunto un presentatore tv, di nome Piero C. (sic), di una trasmissione sull'amore, che viene inaspettatamente lasciato dalla sua ragazza, interpretata dalla bellissima Vanessa Asbert -non troppo credibile al fianco di Chiambretti-. Il film si incentra sul percorso di sofferenza amorosa del protagonista che, mogio mogio, cerca conforto negli amici (tra cui il professore Felice Andreasi e lo psichiatra Antonio Catania), con la speranza che lei si rifaccia prima o poi viva. Cartomanti e rimedi magici non servono: voltare pagina per lui è molto difficile, anche se qualche altra donna si affaccerà.
La pellicola si apre con delle vedute di Torino, Mole Antonelliana e tetti vari, che darebbero il sorriso alla Film Commission della città. Nel corso del film si vedono vari luoghi torinesi, tra cui il teatro Carignano ed il ristorante, di proprietà di Chiambretti, F.lli La Cozza. Quando compare il personaggio della “amica del cuore” del protagonista, si capisce già che i due scopriranno di dover stare insieme. Ma il problema del film non è la scontatezza, perchè va ammesso come nell'ultima parte poco vada in una direzione ovvia; né che sia girato male, perchè la confezione c'è: il Chiambretti regista cerca un suo stile con inquadrature oblique, dall'alto, più generalmente chiudendo i personaggi in scena come in dei quadretti, cercando una deformazione ironica. E' che il tutto non regge niente bene l'ora e mezza di durata. A forza di girare in modo ombelicale intorno al protagonista ed alle annesse chiacchiere e battute sull'affrontare l'amore che se ne va ecc., finisce con l'avere scarso respiro e ad un certo punto si aspetta solo che termini. In ogni caso, tra le cose più simpatiche si possono citare la trovata del dormire insieme al portiere e relativa moglie per combattere la solitudine, e la scena con le due donne che vogliono un autografo mentre Piero si rivolge alla statua divina (“Un attimo che finisco col Signore”). Ma chi ce l'ha col cinema italiano “piccolo” nel suo frequente trattare di personaggi maschili in crisi, stia alla larga.
Un paio di scene per l'ex direttore di Raidue Carlo Freccero, nella parte proprio del direttore del canale tv in cui lavora il protagonista; mentre ha una piccola parte Vladimir Luxuria. E' l'ultimo copione a cui ha collaborato il leggendario sceneggiatore Leonardo Benvenuti, a cui il film è dedicato. Tra gli autori delle musiche figura, facendo strabuzzare gli occhi, David Lynch.
Alessio Vacchi

* fonte: Ciak gennaio 2001, pag.80.
http://www.arturovillone.it/lavori/art_ognilasciato_1.html

La youtubata. PIERO CHIAMBRETTI 1983


Il Chiambretti dispettoso "guastatore" tv appare qui in una versione, riproposta da Mai dire tv, poveristica, degli inizi: ma la qualità video del reperto fa apparire le cose peggiori di quel che sono. Notare l'ineffabile risposta finale dell'uomo in bici.
Alessio Vacchi

domenica 2 novembre 2008

Io c'ero. Festival ed eventi vari. CINEMA. FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI ROMA, 22-31/10/2008. $ 9.99


Australia/Israele 2008.

Impreziosito dalle voci di Anthony LaPaglia, Geoffrey Rush ed altri attori australiani meno noti, $ 9.99 vede la regista Tatia Rosenthal collaborare, non per la prima volta, con lo scrittore israeliano Etgar Keret. Costata anni di lavoro, è una pellicola che facilmente piacerà, essendo animata (e questo spesso basta a creare consensi), non sciocca, dal tocco delicato. Ma mi si permetta di far sentire una voce parzialmente negativa. Il film racconta casi di vita incrociati di una serie di personaggi che vivono in un caseggiato. C'è un anziano che soffre di solitudine, un tizio lasciato dalla ragazza perchè accusato di immaturità, un signore a cui capita una brutta avventura con un figlio che cerca il senso della vita attraverso un libro acquistato per corrispondenza... Sui corpi dei personaggi si vede il lavoro umano, le tinte stese. Siamo quindi lontani da un'animazione digitale (sebbene della postproduzione, chiaramente, ci sia) e più vicini alle dita visibili nella plastilina di Wallace & Gromit. I corpi camminano rigidi -in stop motion- e hanno una boccuccia un po' grottesca, ma non si fa una colpa di questo.
E' apprezzabile che $ 9.99 sia un film d'animazione adulto, senza poi che ciò voglia dire contenuti forti, di volgarità o violenza che siano. Ma nonostante i sorrisi e il mood dolceamaro in cui culla lo spettatore, manca qualcosa. A pensarci un attimo, molto di ciò che si vede nel film risulterebbe fiacchissimo se interpretato da attori in carne ed ossa. Con l'eccezione, come minimo, del calvario fisico a cui finisce col sottoporsi uno dei personaggi per amore. Mentre al contrario, il culmine della parabola dell'angelo tradisce una paradossalità fine a sé stessa; e sì che lo stesso personaggio apre il film in una sequenza intrigante, che disorienta. E' soprattutto il reiterato, ostentato refrain del “senso della vita” che dovrebbe fare da dolceamaro collante a non convincere e a mangiare un po' di fiato al film, che pure dura poco. Perchè non ha pregnanza e si conclude in una bolla di sapone, come ampiamente prevedibile. Che cosa dice il film, cosa se ne trae? Il suo velo d'ambizione gli nuoce. Lode comunque, ci mancherebbe, all'impegno. I due cortometraggi precedenti della Rosenthal sono disponibili su youtube.
Alessio Vacchi

Io c'ero. Festival ed eventi vari. CINEMA. FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI ROMA. L'HEURE D'ÉTÉ


Francia 2008. Di Olivier Assayas. Su dvd mk2 (Francia).

Il pimpante regista francese, che si è sforzato di parlare in italiano, ha introdotto l'anteprima italiana di questo suo nuovo lavoro dicendo che l'ispirazione viene dal recente lutto della madre, sebbene il mondo ritratto nel film non gli appartenga. Pur trattandosi di un film di livello dignitoso, un po' di delusione c'è. Un nucleo di fratelli deve fare i conti con la scomparsa della madre e conseguente sistemazione dell'eredità, che consiste in numerosi oggetti di valore artistico e una casa che ha, chiaramente, valore di ricordo. Ma le loro esigenze sono differenti.
Assayas struttura il film in blocchi, incorniciati, in modo soft e demodè, da dissolvenze in nero: più volte questi segmenti attaccano con l'entrata del personaggio di Charles Berling, quello maschile principale. Da parte dell'Assayas scrittore è apprezzabile il modo in cui è gestito il lutto: niente scene madri, abbiamo un poco prima e poi un dopo la dipartita della donna. Sono notevoli, da parte della regia, alcuni momenti in cui isola certi personaggi nel loro dolore: per esempio la Binoche alla camera ardente che si commuove, affranta, o Frédéric che si allontana abbattuto perchè si è reso conto che perderà la cara casa. L'autore si incarta, però, su alcune scene di dialogo poco interessanti, in cui si parla di oggetti d'arte ed eredità, che rimangono fredde sullo schermo e appesantiscono. Chiusura affidata ai giovani, con una sequenza di festa che ricorda quella di L'eau froide, in una versione minore. L'heure d'été parla dello spiacevole ma inevitabile concludersi di certi capitoli nella vita, di legami familiari che possono stare stretti e di un passato le cui vestigia tangibili si guardano passare via. E' un film tranquillo, francamente un po' troppo borghese, a cui manca quel mordente, quell'emozionalità che c'erano in L'eau froide, in Clean. All'attivo va messo comunque un po' tutto il parco attoriale, a partire da una Juliette Binoche bionda e giovanile.
Alessio Vacchi

Io c'ero. Festival ed eventi vari. CINEMA. FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI ROMA. 8


Francia 2008. Di autori vari.

L'anno scorso a Roma era passato Chacun son cinema, film a innumerevoli, brevi episodi d'autore commissionato dal patron di Cannes. Quest'anno il film a episodi autoriale è stato questo 8. Cominciamo con una bella banalità: operazioni come questa paiono avere la disegualità incorporata. Affidando a tot registi tot episodi, si otterrà un totale ad alti e bassi. 8 non fa eccezione. Ogni episodio dovrebbe dire qualcosa riguardo gli otto Millennium Development Goals, gli obiettivi che numerosi stati si sono impegnati a raggiungere entro il 2015.
Dopo una introduzione con delle immagini proiettate su corpi, il primo episodio è quello di Abderrahmane Sissako, con protagonista una ragazzina etiope che va a scuola. Corretto, ha un momento di accensione quando lei dichiara il proprio pessimismo riguardo l'abbattimento della povertà. L'episodio dell'attore Gael García Bernal non suscita granchè, sebbene non sia male, immagini e voce over per una storia di affetti a distanza. Con Gaspar Noè si arriva all'episodio se non proprio più bello, più rigoroso e significativo. Provocatorio come al solito, Noè mette a disagio lo spettatore appioppandogli 17 minuti concentrati su un malato di Aids del Burkina Faso che racconta sé stesso, la sua malattia, quello che comporta. La sua voce è preregistrata e la ascoltiamo insieme ad un tappeto di pesanti bassi che pulsano, mentre Noè sta su di lui sovente in primo piano. Un paio di volte l'uomo guarda in macchina, verso la fine si alza e cammina fino a una sorta di casetta buia. Il pensiero che fa chi guarda è “sì ok, ma ora passiamo oltre”, e forse è proprio quello che Noè si prefiggeva. Jane Campion conquista un ideale secondo posto, ambientando nella sua Australia una storia di giovani che tentano di organizzarsi contro la siccità che sta attanagliando la zona. Poetico. Mira Nair gira un segmento pulito, un dramma di tradimento in interno familiare, che forse non dice abbastanza sul tema di riferimento. (l'uguaglianza di diritti tra uomo e donna). Van Sant firma una breve cosa che sembra di maniera, con riprese al ralenti, in formati “poveri”, di ragazzi che vanno in skate in cui si vede l'ombra lunga del suo ultimo Paranoid park, e cifre sulla mortalità infantile sciorinate a tutto schermo. Anche se, complice l'avvolgente commento sonoro, un'ombra di inquietudine la dà.
Il Jan Kounen di Dobermann che ci fa qui? Gira in un bianco e nero raffinato la storia di un parto sfortunato, un po' cantata un po' illustrata, ambientata in una piccola popolazione amazzone. Volenteroso, forse non gli giova l'arrivare verso la fine. La nota dolente, ma pare di sparare sulla croce rossa, è l'episodio di Wim Wenders. Purtroppo bisogna distinguere tra il come ed il cosa. Il cosa è il parlare del microcredito. Ma l'ideuzza degli oppressi che scavalcano i media e fanno sentire la propria voce affonda nell'imbarazzo, con queste persone che balzano fuori dagli schermi e spiegano tutto allo spettatore, guardando in macchina. L'episodio diventa uno spot per il microcredito: massima didatticità, cinema pochino. Da mostrare in televisione, magari.
Alessio Vacchi

Foto da The water diary, l'episodio di Jane Campion.

Io c'ero. Festival ed eventi vari. CINEMA. FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI ROMA. MAN ON WIRE

Man on Wire
UK/Usa 2008. Di James Marsh. Su dvd Magnolia (regione 1).

C'è chi non si accontenta di vivere una vita monotona e sicura, ma povera di emozioni. E lotta per realizzare i suoi sogni. Pacifico. Solo che per il Philippe Petit protagonista di Man on wire, il sogno è camminare su di un filo a centinaia di metri d'altezza, tra le defunte Twin Towers di New York. Un sogno che dopo anni di incubazione ed altre camminate estreme, con le torri in via di ultimazione decide di tradurre in pratica, insieme ad alcuni complici. Man on wire è un documentario con una marcia in più, per via di diverse ragioni. Ha una forma piuttosto coinvolgente, per via dell'impasto di musiche, tocchi di ricostruzione realizzati in modo sensato, pezzi d'epoca. Poi, per la personalità tracimante del funambolo francese, che affascina con la sua mimica, passione e coraggio. Divertito ma determinato, era cosciente che con imprese come quella rischiava la vita alla grande. Nella sua impresa si possono vedere una sfida ai limiti umani ed anche uno sberleffo al potere, con la polizia che non sa bene come trattarlo.
E' curioso come, più di lui che stava sul filo, alcuni degli intervistati si emozionino ancora a ricordare passaggi relativi alle vicende raccontate, dopo oltre trent'anni. Il lavoro diverte e talora fa venire le vertigini, nonostante la struttura che va avanti ed indietro nel tempo ed il tema che di suo poteva non essere a prova di bomba nel reggere un'ora e mezza.
Alessio Vacchi

Io c'ero. Festival ed eventi vari. CINEMA. FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI ROMA. WHERE IN THE WORLD IS OSAMA BIN LADEN?


Usa/Francia 2008. Su dvd Weinstein Company (regione 1).

Morgan Spurlock è accostabile a Michael Moore, per il suo portare avanti un cinema documentaristico nel quale lui stesso si mette in scena e si propone come personaggio. Spurlock ha un atteggiamento più da burlone: infatti parte in quarta con l'umorismo, mostrando addirittura uno scontro animato, a mò di videogame, tra lui ed il temibile Osama. Ma presto diventa chiaro come il film sia, più che un documentario sul terrorista islamico, il viaggio da parte di uno statunitense nel Medioriente. Struttura il suo percorso giocosamente, a tappe come fosse la missione di un videogiocatore. Spurlock continua a chiedere qua e là dove possa trovarsi Osama, ma l'obiettivo sembra una ricognizione in questi paesi lontani, a contatto con la gente, per scavalcare i luoghi comuni dei media e rendersi conto della vita vera e dei pensieri di chi in quei posti ci sta. Come dire: attenzione, qua non c'è solo terrorismo, ma gente comune, famiglie. Ostentando un atteggiamento aperto e rispettoso, ma non per questo risparmiando una stoccata al connubio arabo tra religione e stato: una delle scene più inquietanti è proprio quando lui, guardato a vista, tenta un'intervista a due scolari arabi che però non possono rispondere alle sue domande “irrispettose”.
A spezzare anche geograficamente l'andamento del film, scene con la fidanzata di Spurlock che aspetta un bambino. A ricordare la casa, la vita che l'autore ha momentaneamente lasciato ed offrire il destro per il pistolotto finale (che mondo vogliamo, uno composto di sospetto, odio, violenza?). Il film è piacevole, umano, e quando vuole il suo protagonista sa suscitare la risata anche fragorosa. Uno dei limiti può essere il fatto che non tutto quel che viene detto è certamente nuovo, almeno per noi: Spurlock ha un pubblico base di riferimento, che è quello americano.
Alessio Vacchi

Io c'ero. Festival ed eventi vari. CINEMA. FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI ROMA. APPALOOSA


Usa 2008. In sala prossimamente.

Il western è un genere che un tot di volte l'anno fa ancora capolino nella produzione americana (ma ricordiamo en passant l'australiano The proposition). Di recente abbiamo avuto il dignitoso (anche se per molti pessimo) remake di Quel treno per Yuma ed il notevole L'assassinio di Jesse James da parte del codardo Robert Ford. Ora ecco Appaloosa, nuova regia del veterano attore Ed Harris. E' un western classico: registicamente pulito, con un personaggio di antagonista che spadroneggia ingiustamente in una cittadina, una situazione di scorta ad un bandito-assalto da parte dei complici-nuova ricerca dei malviventi, una donna che giunge col treno e scompaginerà qualche equilibrio ed un personaggio che alla fine si allontana verso l'orizzonte.
I due protagonisti sono calatissimi nel loro ruolo: Harris e Mortensen li diresti parte integrante del vecchio West, con le loro espressioni ed il loro modo di parlare. La durata del film è contenuta (114') e non si avverte. Uno degli aspetti curiosi è il modo in cui viene declinato il topos dell'amicizia virile. Tra i due uomini qui arriva una donna molto civetta, che si lega al personaggio di Virgil Cole ma si rivela un po' troppo facile. Quando emerge il mezzo tradimento di lei con Everett Hitch, la cosa si risolverà a pugni? No: i due uomini isolano momentaneamente la donna e ci ragionano su. Cole si fida di Hitch, più di quanto si fidi di lei, e lo dice esplicitamente. Il compare viene prima di una donna, pure a lungo attesa (“Finora ho avuto solo puttane e squaw”).
Probabilmente chi apprezza il genere uscirà dalla proiezione con un sorrisone, avendo avuto la sua razione di sgaloppate, amicizia virile, scontri a fuoco ecc., in un film del 2008 che sembra venire dritto dal passato: anche se il cattivo che viene ingiustamente graziato può dire qualcosa ai giorni nostri. Ad Appaloosa non manca un buon respiro registico, nonostante gli scontri a fuoco siano molto secchi, non epicizzati; e nella scrittura le linee di dialogo sono precise (con l'ironia del tormentone “...che parola volevo dire?”). Gli manca qualcosa per essere un grande film, forse resta leggermente schiacciato dalla sua classicità proprio a livello di sceneggiatura.
Alessio Vacchi

Io c'ero. Festival ed eventi vari. CINEMA. FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI ROMA. GALANTUOMINI


Italia 2008. Di Edoardo Winspeare. In sala da novembre.

Winspeare ha dichiarato che voleva assolutamente Donatella Finocchiaro. Solo l'attrice catanese, a suo dire, possedeva quelle caratteristiche che dovevano esserci nel personaggio femminile. Sommando questo sentirsi necessaria al giusto premio come miglior attrice, si può dire che con questo film le sia andata bene.
Qualche cosa di Galantuomini è accostabile a Gomorra, per esempio la grottesca scena del giuramento di fedeltà, che mostra una squallida quotidianità del crimine. Ma Winspeare si muove su una strada più romanzata rispetto al film di Garrone. Più che un film sulla Sacra Corona Unita, è il percorso di una donna che vive ed opera nel mondo della criminalità organizzata, maschile e maschilista. Si sa far rispettare, ma la sua vita sembra solo serietà e sofferenza. Il suo essere una donna, ma che comanda, le viene spesso rinfacciato (la scena in barca) e le frutta quasi una violenza. E' anche madre. La disumanità del crimine è fatta emergere dal progressivo isolamento, messa in pericolo della protagonista femminile (un pò come nella vicenda del sarto di Gomorra). Che si rende conto del mondo in cui vive, ma come fare a smarcarsene? Lei sta in mezzo a, e va a letto con, uomini dalla parte della delinquenza, mentre il maschio ideale è evidente come sia l'amico procuratore, di bell'aspetto e dalla parte della legge, che è pure attratto da lei. Il film ci arriva, soffermandosi sulla loro raggiunta intimità. La donna può finalmente essere “femmina”; ma poi si termina con un finale notevole, sospeso, di quelli che paiono fatti apposta per fare brancolare e innervosire lo spettatore (e dunque assai graditi). Beppe Fiorello se la cava (non è esattamente coprotagonista, come il manifesto può far pensare), e così Gifuni, che è una scelta sensata per un personaggio di uomo mite e probo. Ogni tanto Winspeare fa vibrare della musica e guarda al “suo” paesaggio, quello leccese, ma non c'è banale folklore. Per questo, per l'intensità dell'interpretazione e per lo sguardo registico sufficientemente non televisivo, si tratta di un film soddisfacente.
Alessio Vacchi

Io c'ero. Festival ed eventi vari. CINEMA. FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI ROMA. JCVD


Belgio/Lussemburgo/Francia 2008. Di Mabrouk El Mechri. Su dvd da dicembre (estero).

L'apertura è folgorante: la sigla Gaumont è vittima di un ironico sacrilegio, dopodichè piano sequenza che segue un Van Damme fare di tutto su un finto set volutamente esagerato: mena, lancia bombe, spara... Film non per tutti questo JCVD, forse più adatto ad un pubblico giovane e/o che segue il cinema, facilmente bollabile come “cazzata”. E' più cose insieme: film di rapina, di ironia ed autoironia cinefila, riflessione di un attore tra i simboli di un certo cinema sul suo lavoro, sulla sua popolarità e le sue origini. Parte da dei paradossi: un action-man come Van Damme, in crisi nella vita, coinvolto in una rapina che da un lato è creduto essere tra i rapinatori, dall'altro in realtà non lo è ma... se è realtà, non può certo sgominare da solo i malviventi. L'attore recitando sé stesso si mette in gioco, consapevole di avere già, come dice, 47 anni. L'ironia coinvolge, oltre che lui, il mondo dell'action americano, con divertenti battute su Steven Seagal e su John Woo.
Il film sembra giocare con le attese dello spettatore: il più cattivo dei rapinatori, conciato come John Cazale in Quel pomeriggio di un giorno da cani, stuzzica e maltratta il nostro Jean-Claude, prima o poi accadrà qualcosa? Ma l'azione più eclatante che lui compie sul piano della “realtà” è uno dei suoi calci... che poi si rivela immaginario. L'umorismo qualche volta è un po' cazzone (scontatissima la scena della lezione di calcio in faccia) e le didascalie poste all'inizio dei capitoli inutilmente concettose, ma il film osa un picco di metacinema quando l'attore si isola fisicamente dal set della narrazione e si rivolge al pubblico, parlando di sé e mostrando di commuoversi: “questa è vita vera!”. La confezione è elaboratamente “moderna”: una mdp nervosa, ariosa, obliqua, una fotografia che sa di color-correction, con solarizzazioni. In definitiva un divertito paciocco, tra intrattenimento e riflessione sullo stesso, che potrebbe essere consigliato a chi negli anni 90 seguiva i film dell'attore su Italia 1.
Alessio Vacchi

Io c'ero. Festival ed eventi vari. CINEMA. FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI ROMA. EL ÚLTIMO TRUCO


Spagna 2008. Di Sigfrid Monleón.

“I making of dei dvd e documentari come questo non dovrebbero essere fatti”, scherza (ma neanche tanto) Ruiz del Rio all'inizio. Perchè rompono qualcosa, svelando la magia del cinema con i suoi trucchi. Il documentario omaggia, rende conto del lavoro di questo artigiano spagnolo del cinema, prolificissimo (è incredibile scorrere la sua filmografia) creatore di fondali, modellini, trucchi ottici. Non c'è la voce fuori campo di un autore: le parole sono lasciate a lui stesso e ad alcune persone che ci hanno collaborato. In questo modo El ultimo truco mostra e svela una sfilza di effetti elaborati da Ruiz del Rio per il cinema. Non sempre di serie B: il film rende conto anche del lavoro per De Laurentiis con Conan il barbaro, Dune, Yado. C'è pane pure per i cinefili seguaci del nostro cinema di genere: Ruiz del Rio a tavola con Enzo G. Castellari. I due scherzano, si mostrano fotografie e rammentano il lavoro fatto per film come Cipolla colt e Quel maledetto treno blindato. L'andamento può generare qualche stanchezza, nella messa in fila dei vari trucchi. Ma il bello (o il brutto, a sentir Ruiz del Rio) è che si rimane ogni volta come allocchi, rendendosi conto coi propri occhi delle magie del cinema: ci si sente presi in giro e nello stesso tempo ammirati e divertiti a notare la resa ai nostri occhi di spettatori di cose che fisicamente, sui set, non c'erano o c'erano in un modo diverso da come li si fruisce durante la visione dei film. Il paradosso della scena dell'autobomba, creata con modellini, per Ogro di Pontecorvo, poi utilizzata in altri lavori come fosse vera, dice qualcosa a riguardo. E non manca verso la fine, come immaginabile, qualche discorso sull'effettistica artigianale contrapposta a quella digitale. Nel corso di El ultimo truco, si impara a stimare ed in qualche modo familiarizzare con questo abilissimo signore; al punto che, quando il cartello finale ne rammenta la recente scomparsa (proprio mentre il documentario era in fase di montaggio), è difficile non emozionarsi.
Alessio Vacchi

Foto da tertre-rouge.iespana.es.

Io c'ero. Festival ed eventi vari. CINEMA. FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI ROMA. MARTYRS


Francia/Canada 2008. Di Pascal Laugier.

La visione più forte del festival è stata introdotta dalla bella Mylene Jampanoï, in una mise ben diversa da quella con cui la si vede su schermo, e da Pascal Laugier che ha raccolto scontati applausi augurandosi che il nostro cinema torni a fare film come li faceva nei 70s e dedicando il suo lavoro a Dario Argento. Il cui cinema c'entra poco con Martyrs, è un punto di riferimento che andrebbe scordato accingendosi alla visione. Dopo Saint Ange, il regista francese firma un film che si potrebbe inserire nel filone dei cosiddetti torture-porn, ma andiamo con ordine.
Nella prima parte il film gioca di accumulo, anche sonoro. Sembra un film di vendetta, sebbene sia così brutale da far immaginare che potrà prendere altre pieghe, e insieme un film di fantasmi, di presenze mostruose. Ma la creatura brutta che tormenta la ragazza e consente i boo-scares è irritante, mentre poi il film andrà a sottrarre con altra efficacia. Infatti, procedendo con alcuni colpi di scena, la pellicola cresce. Quando giunge al punto di svolta della prigionia della protagonista, denuda il (sotto)genere, e lo porta alle estreme conseguenze, sbattendo in faccia allo spettatore una violenza “banale” e reiterata, su un personaggio inerme, senza marchingegni strani alla Saw o trovate splatter, a cui non c'è scampo, senza nemmeno essere sempre grafico (penso all'operazione, non mostrata, o al tirarsi indietro quando la giovane decide di lasciarsi andare a quanto le accade). In questo modo scavalca gli steccati del medio film di genere e colpisce più duro, arrivando ad assumere un senso, fino ad un colpo di scena non così gratuito. L'etichetta di horror gli sta stretta: anche se, assumendo che l'horror sia il cinema della morte, Martyrs vi rientra appieno. Della catarsi ci si fa beffe. In sala, a parte chi la abbandona, qualcuno ride, commenta e alla fine se ne va scontento, ma sembrano le classiche reazioni di superiorità con cui si cerca di prendere le distanze da una pellicola così radicale e violenta. Martyrs si merita una visione seria, non coi popcorn in mano, anche perchè rischierebbero di andarvi per traverso. E meglio non vederlo con la propria ragazza.
Alessio Vacchi

Io c'ero. Festival ed eventi vari. CINEMA. FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI ROMA. Incontro con MICHAEL CIMINO



Un ometto con gli occhiali da sole ed una voce peculiare si fa strada verso il palco: è Michael Cimino, per uno degli incontri clou dei questa edizione del festival. Con aria contenta, ma sostenendo che le sue corde vocali siano malmesse, introduce un montaggio di un'ora delle scene di ballo che preferisce dalla storia del cinema. Non so quanto sia il caso di fare un'analisi critica di questo lavoro. Come dice lo stesso Cimino, sono scelte di gusto, “not intellectual”, né che segua qualche filo cronologico. Si apre e chiude col film Gigi ed il musical classico Mgm torna con Incontriamoci a Saint Louis e Cantando sotto la pioggia, non banalmente con la scena del titolo ma con quella di Gene Kelly sul palco danzante e sviolinante insieme a Donald O'Connor. Fa sorridere, ma se lo merita, l'autoinserimento, con Il cacciatore e I cancelli del cielo. Tornano più volte Fred Astaire e Ginger Rogers, probabilmente perchè simbolo di un lavoro duro, di grande professionalità, che però si traduce su schermo in qualcosa di soave e piacevole. A più riprese Cimino torna su Carmen di Carlos Saura, proponendo tre belle scene in cui il ballo è declinato in allenamento, passione, lotta. Il cinema italiano è presente con La caduta degli dei, Il Gattopardo e con una delle scelte più buffe, il ballo di Sordi Sceicco bianco con Brunella Bovo.
Dopo la proiezione, il regista, che mette a sedere quelli che dovrebbero essere i presentatori dell'incontro (Sesti e Giovannini), vuole sentire le domande del pubblico, ma la cosa buffa è che spesso parte un po' per la tangente con le sue risposte. Giona A. Nazzaro gli fa una domanda sul Siciliano ma lui glissa e praticamente non gli risponde, così come, a domanda sulle vicissitudini de I cancelli del cielo, la prende larga ma dice una cosa molto interessante: come mai i registi, anche grandi, spesso dicono di non rivedere i loro film? A lui (come a chi scrive) la cosa pareva essere assurda. Ma poi ne ha capito le ragioni: “all you see is your mistakes”. Congeda il pubblico sostenendo che le sue corde vocali sono al limite, rammaricandosi di essere (quasi) inattivo dietro la mdp da tempo ma con una speranza: ha appena scritto una sceneggiatura e si augura di poterla girare il prima possibile. Inutile dire che a dodici anni da Verso il sole un nuovo lungometraggio di Cimino sarebbe gradito.
Alessio Vacchi

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 11° CINEMAMBIENTE, Torino, 16-21/10/2008. BATTLE IN SEATTLE


Usa/Canada/Germania 2007. Di Stuart Townsend. Su dvd Redwood Palms (regione 1).

Ha chiuso Cinemambiente, in anteprima italiana, questo debutto alla regia dell'attore Stuart Townsend. Che non inizia male: dopo un introduzione in cui molto velocemente, con grafica e dati, si illustra cosa e più o meno il WTO, mette le carte in tavola presentando scenario ed alcuni dei personaggi che si fronteggeranno. Siamo nelle giornate del meeting dell'Organizzazione Mondiale del Commercio 1999 e gruppi ambientalisti si preparano ad una contestazione in grande stile.
Scandito in giornate, Battle in Seattle è un film militante, che mostra sì un personaggio di potere umano e con contraddizioni, quello del sindaco Ray Liotta, ma sta comunque da una certa parte. Intendiamoci, non è un male: di una pellicola pro-fame nel mondo o pro maneggioni dell'industria farmaceutica se ne fa volentieri a meno. Il problema è che si fa ben poco per evitare retorica e didascalismo, anzi li si cerca e se ne fa uso. Da una parte abbiamo scelte molto “da film americano”, con scontri verbali a base di “fuck you!” ed un personaggio di nero che fa il simpatico (ancora?); dall'altro Townsend ricostruisce gli scontri, con le trovate dei manifestanti e la reazione G8-style della polizia, spruzzandoli di riprese degli scontri veri. Emerge a sufficienza la difficoltà della lotta di tanti Davide contro un Golia che pare intoccabile e prima risponde col tollerare, poi passa allo scontro fisico. Ma in mezzo a qualche riflessione interessante -e ad almeno una bella scena: Harrelson che si prepara a far sgomberare i manifestanti quasi piangendo, provato da quanto gli è accaduto-, Battle in Seattle fa emergere il proprio senso con le modalità del detto e della retorica. Non bastava la vicenda della Theron, manganellata senza motivo dalla polizia di cui il marito fa parte, per sparigliare le carte tra “buoni” e “cattivi”? Invece che scene quasi imbarazzanti come quella in carcere tra l'arrestato Martin Henderson e l'agente Harrelson, o il membro del paese disagiato che si infervora e si fa applaudire all'assemblea.
Le ragioni della protesta, le idee dei contestatari vengono spiegate, ma il rischio paradossale è che venga ad avere più spazio il dissenso che non cosa più precisamente è/come funziona/che cosa sbaglia il WTO. Ed il modo dolciastro con cui è condotto il positivo finale, seguito da altre informazioni prima dei titoli di coda, conferma l'impressione di un film impegnato e dalle idee condivisibili, ma più adatto ad una serata tematica o ad un centro sociale che non al grande schermo. Il cast coinvolto, comunque, è di livello: oltre ai citati, ci sono Michelle Rodriguez, Rade Serbedzija.
Alessio Vacchi