Tit. or. Arpón. Argentina/Venezuela 2017. Di Tom Espinoza.
Arguello, uomo sui 50, fa
il preside e ha un pallino: controllare che non ci sia nulla di
pericoloso negli zaini degli studenti. Cata, ragazzina che si ribella
ai suoi controlli, viene sospettata di aver utilizzato una siringa
ritrovata a scuola, e a ragione: con essa, si inietta (e inietta alle
compagne che vogliono) una sostanza oleosa nelle labbra per renderle
più evidenti. In seguito a un rapido ricovero, Cata dovrebbe essere
riportata a casa. Si offre di farlo Arguello, ma i genitori di lei
non si trovano. Adulto e ragazzina, prima ai ferri corti, si trovano
quindi a condividere più tempo del previsto, in compagnia anche
della prostituta-amante di lui, Mica. Ma a un tratto le due non si
trovano più. L'uomo va nel panico, e si mette a cercarle
estremamente determinato: la sua situazione a scuola è già molto
precaria e la ragazzina era sotto la sua responsabilità.
Esordio nel
lungometraggio proposto in concorso, Harpoon si
presenta con due componenti stilistiche, estetiche fondanti. Una
fotografia resa pallida, nella quale i neri più intensi si fanno
grigi, e una macchina da presa che nel formato panoramico privilegia
il seguire i personaggi da vicino (non vicinissimo) e i primi piani –
efficace, in tal senso, il passaggio in cui il preside mette alle
strette Cata e compagne – , talora muovendosi rapida tra un volto e
l'altro, come in certi confronti a due.
Protagonista è un uomo
che si autodefinisce “stanco”, il cui destino segnato è dover
lasciare il suo lavoro, e intanto comunque sbaglia ogni mossa: quelle
professionali ed educative, perché la sua fissazione di controllore,
spinto dall'intento di “pulire” un po' la sua scuola, è ormai
malvista e da lui gestita non molto bene quanto a reazioni, e anche
quella che, peccando di superficialità, gli fa poi perdere di vista
la studentessa.
La visione dei giovani
non è buonista: tra loro e gli adulti c'è un muro comunicativo che
fra il preside e Cata, a metà film, sembra felicemente rivelarsi
meno invalicabile di quanto sembrasse – in macchina, finalmente lei
si apre, inizia effettivamente a parlare, a recriminare, a
confessarsi sul peso di sentirsi inadeguate a un'immagine ideale,
quella che porta i like, e anche a ridere – , poi questo si
rivela solo una parentesi. Gli insegnanti li considerano come un
grande gruppo chiuso, i cui componenti si intendono tra di loro e
comunicano scambiandosi video. In effetti anche noi non siamo quasi
mai messi a parte di quel che si dicono i ragazzini e le ragazzine
che incrociamo. E che filmano tutto, con gli smartphone
realisticamente messi davanti a loro di fronte a ogni accadimento
ritenuto degno di testimonianza. “Fumano, scopano...!”, si
lamenta il preside di fronte a un ispettore esterno, e i professori
riuniti parlano del loro essere ribelli senza causa, ribelli sì ma
per cosa? Nel finale comunque c'è una luce di speranza, col discorso
discutibile ma ben espresso di una studentessa pasionaria.
Film drammatico che
sembra virare al thriller (la ragazza che sparisce, la sua ricerca
che passa pericolosamente per un pappa...), con repentini accessi di
violenza, conta su di un protagonista, Germán
de Silva, molto bravo e naturale; ma sono bravi tutti, e
tutte, compresa l'impetuosa collega che lo difende a denti stretti
finché può (Ana Celentano), e la “puta”. Per gli haters
della messaggistica da cellulare al cinema: qui sono utilizzati un
paio di volte, ma non hanno un ruolo significativo.
A.V.
Nessun commento:
Posta un commento