Tit. or.: Taek-si-un-jeon-sa. Corea del Sud 2017. Di Jang Hoon.
Corea del Sud, 1980.
Man-seob fa il tassista a Seoul, e intorno a lui ci sono avvisaglie
di un clima difficile, con manifestazioni contro il recente colpo di
stato. Cogliendo la possibilità di un affare, si propone come
autista a Peter, reporter tedesco determinato ad andare nel cuore di
quel che sta accadendo, ovvero nella cittadina di Gwangju: tagliata
fuori da tutto e militarizzata, vi è in corso quella poi nota col
nome di Gwangju Uprising, con un sacco di persone impegnate in
proteste. Arrivati, con difficoltà, alla cittadina, la trovano
desolata ma si legano a un giovane militante, prima di conoscere
altre persone in loco. Testimone di una repressione brutale e cieca,
Man-seob vorrebbe tornare indietro, e sprona in tal senso il
giornalista. Poi subentra in lui la necessità dolorosa di restare.
Grandissimo successo in
Corea del Sud (è diventato il decimo film nazionale più visto là),
che l'ha proposto come suo concorrente all'Oscar per il miglior film
straniero, A Taxi Driver è stato comunque, a quanto si è
colto, ben apprezzato anche nel piccolo del festival. Ed è un
“filmone” per il pubblico, popolare, più che per il cinefilo,
che può goderne ma storcendo un poco il naso.
La sua forza si basa sul
terribile passaggio storico nei cui giorni è ambientato. Gwangju
divenne un confinato laboratorio di repressione, anzi si direbbe di
eliminazione di una parte del popolo (ci restarono circa 600 persone,
pare). L'approccio per raccontare questa pagina nazionale di
abbandono alla violenza è diretto; non siamo dalle parti di un
Larrain, che a chi scrive è balenato in mente (Post mortem)
vedendo le immagini dell'ospedale che sembra un macello, pieno di
feriti, morti e sangue, ma tra questo e i soldati in posizione che,
in una sequenza abbastanza incredibile e frustrante, verso la fine,
falciano sistematicamente chi capita nel loro raggio di tiro,
difficile che un pensiero non vada a quanto può essere bestia, e
massacratore assurdo dei suoi simili, l'uomo.
Pazienza per quella
componente di retorica, comprensiva di proiettili che bucano gambe e
vetri al ralenti. D'altronde il film rende “cinematografico” e
spettacolarizza il suo tutto: il capo del servizio segreto è uno di
quei tipi torvi e serissimi, sicuro di sé e aduso alla violenza,
magari elargita a scatto dopo attimi di stasi; se l'esercito
rappresentato nel film si abbandona a sadici pestaggi degni della
malavita, lui sembra un gangsterello. Ma in due ore e passa che
divertono, emozionano, lasciano sgomenti, c'è spazio d'altronde
anche per un multiplo inseguimento su quattro ruote.
Il protagonista è da
subito rappresentato come lamentoso e insensibile ma simpatico, e
nelle sue parole già si vedono i germi del futuro ripensamento sulla
madrepatria: dal ritenere che quegli scioperati dei manifestanti
dovrebbero invece ringraziare di vivere dove è loro toccato, al non
riuscire a ignorare le bassezze del potere cui ha assistito. Si è
presto dalla sua parte, un poco meno da quella del reporter: anche
per via della sua carica, a livello di performance vince Song Kang-ho
(attorone, che si è visto anche in alcuni film sudcoreani acclamati
pure qui, di Park Chan-wook e Bong Joon-ho) rispetto a un giusto ma
senza guizzi Thomas Kretschmann.
Tra i valori ribaditi dal
film, il dovere della testimonianza – filmata: il reporter finché
può ha sempre la camera in mano, e a un certo punto sarà il
tassista a spronare l'altro, mentre entrambi si sentono provati, a
riprendere in mano quello strumento: ulteriore passaggio della presa
di coscienza da parte di un uomo che si è cacciato in una parte
andata in malora di un mondo del quale si fidava. A Taxi Driver è
solo secondariamente, però, la storia di un'amicizia: questo aspetto
emerge di più sul finire del film, tra il congedo dei due e la coda
col video del vero giornalista. Già, perché quanto abbiamo visto è
basato su una storia vera anche per quanto riguarda i personaggi:
sono realmente esistiti “quel” tassista e “quel” giornalista,
e parecchi anni dopo il reporter Jürgen Hinzpeter ha provato a
rintracciare pubblicamente chi lo accompagnò in quei giorni, senza
successo. Il film si chiude così, ma navigando si aggiunge un
tassello: dopo l'uscita, il figlio del “taxi driver” ha
confermato l'identità del padre e rivelato che morì nel 1984.
A.V.
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