giovedì 7 dicembre 2017

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 35 TORINO FILM FESTIVAL. A TAXI DRIVER

Tit. or.: Taek-si-un-jeon-sa. Corea del Sud 2017. Di Jang Hoon.

Corea del Sud, 1980. Man-seob fa il tassista a Seoul, e intorno a lui ci sono avvisaglie di un clima difficile, con manifestazioni contro il recente colpo di stato. Cogliendo la possibilità di un affare, si propone come autista a Peter, reporter tedesco determinato ad andare nel cuore di quel che sta accadendo, ovvero nella cittadina di Gwangju: tagliata fuori da tutto e militarizzata, vi è in corso quella poi nota col nome di Gwangju Uprising, con un sacco di persone impegnate in proteste. Arrivati, con difficoltà, alla cittadina, la trovano desolata ma si legano a un giovane militante, prima di conoscere altre persone in loco. Testimone di una repressione brutale e cieca, Man-seob vorrebbe tornare indietro, e sprona in tal senso il giornalista. Poi subentra in lui la necessità dolorosa di restare.
Grandissimo successo in Corea del Sud (è diventato il decimo film nazionale più visto là), che l'ha proposto come suo concorrente all'Oscar per il miglior film straniero, A Taxi Driver è stato comunque, a quanto si è colto, ben apprezzato anche nel piccolo del festival. Ed è un “filmone” per il pubblico, popolare, più che per il cinefilo, che può goderne ma storcendo un poco il naso.
La sua forza si basa sul terribile passaggio storico nei cui giorni è ambientato. Gwangju divenne un confinato laboratorio di repressione, anzi si direbbe di eliminazione di una parte del popolo (ci restarono circa 600 persone, pare). L'approccio per raccontare questa pagina nazionale di abbandono alla violenza è diretto; non siamo dalle parti di un Larrain, che a chi scrive è balenato in mente (Post mortem) vedendo le immagini dell'ospedale che sembra un macello, pieno di feriti, morti e sangue, ma tra questo e i soldati in posizione che, in una sequenza abbastanza incredibile e frustrante, verso la fine, falciano sistematicamente chi capita nel loro raggio di tiro, difficile che un pensiero non vada a quanto può essere bestia, e massacratore assurdo dei suoi simili, l'uomo.
Pazienza per quella componente di retorica, comprensiva di proiettili che bucano gambe e vetri al ralenti. D'altronde il film rende “cinematografico” e spettacolarizza il suo tutto: il capo del servizio segreto è uno di quei tipi torvi e serissimi, sicuro di sé e aduso alla violenza, magari elargita a scatto dopo attimi di stasi; se l'esercito rappresentato nel film si abbandona a sadici pestaggi degni della malavita, lui sembra un gangsterello. Ma in due ore e passa che divertono, emozionano, lasciano sgomenti, c'è spazio d'altronde anche per un multiplo inseguimento su quattro ruote.
Il protagonista è da subito rappresentato come lamentoso e insensibile ma simpatico, e nelle sue parole già si vedono i germi del futuro ripensamento sulla madrepatria: dal ritenere che quegli scioperati dei manifestanti dovrebbero invece ringraziare di vivere dove è loro toccato, al non riuscire a ignorare le bassezze del potere cui ha assistito. Si è presto dalla sua parte, un poco meno da quella del reporter: anche per via della sua carica, a livello di performance vince Song Kang-ho (attorone, che si è visto anche in alcuni film sudcoreani acclamati pure qui, di Park Chan-wook e Bong Joon-ho) rispetto a un giusto ma senza guizzi Thomas Kretschmann.
Tra i valori ribaditi dal film, il dovere della testimonianza – filmata: il reporter finché può ha sempre la camera in mano, e a un certo punto sarà il tassista a spronare l'altro, mentre entrambi si sentono provati, a riprendere in mano quello strumento: ulteriore passaggio della presa di coscienza da parte di un uomo che si è cacciato in una parte andata in malora di un mondo del quale si fidava. A Taxi Driver è solo secondariamente, però, la storia di un'amicizia: questo aspetto emerge di più sul finire del film, tra il congedo dei due e la coda col video del vero giornalista. Già, perché quanto abbiamo visto è basato su una storia vera anche per quanto riguarda i personaggi: sono realmente esistiti “quel” tassista e “quel” giornalista, e parecchi anni dopo il reporter Jürgen Hinzpeter ha provato a rintracciare pubblicamente chi lo accompagnò in quei giorni, senza successo. Il film si chiude così, ma navigando si aggiunge un tassello: dopo l'uscita, il figlio del “taxi driver” ha confermato l'identità del padre e rivelato che morì nel 1984. 
A.V.


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