Senza preamboli e
focalizzandosi sulle cose effettivamente viste.
Senza dubbio il miglior
film, tra quelli nuovi, per chi scrive è stato Beauty (Skoonheid) di Oliver Hermanus, in concorso. Sudafricano
bianco, benestante, proprietario di una segheria, sposato ad una
moglie verso la quale ha un atteggiamento freddo come per ogni cosa
della sua vita, François
è nascostamente gay (è solito ritrovarsi con altri come lui, che
però sostengono “Non siamo finocchi”) e prova desiderio per il
bel nipote, finché non gli appare la possibilità, mentendo e
forzando le cose, di averlo. Di rado è stato portato sullo schermo
un tale ritratto di incapacità di accettare serenamente la propria
preferenza sessuale. Il film è come un lungo grido soffocato, di
dolorosa bellezza, che mette in scena un'esistenza paurosa, dove non
c'è amore e non c'è luce, non c'è spiraglio d'uscita ma solo
repressione di sé e conformismo che formano una pentola a pressione
umana verso cui si prova pena. Se la regia di Hermanus è di quelle
distaccate e spietate, a base di inquadrature lunghe che non
risparmiano nulla e contemplano i tempi morti nel seguire il
protagonista – una impostazione da film d'autore non nuova, ma
assolutamente efficace – , una parte del peso del film la regge
quest'ultimo, un congruamente controllato e credibile Deon Lotz.
L'inquietudine è sottile e persistente, messa a fuoco molto bene in
sequenze come quella in cui François
si lascia andare, smarrito, in discoteca. Non per tutti (contiene un
paio di sequenze shock, quasi simpatica in sè la prima e disturbante
la seconda; e uno spettatore giorni dopo: “È
come due Ludwig messi assieme!”), con un finale forse
sin troppo sospeso e simbolico, ma, se ne si coglie l'intensità,
Beauty è notevole.
Il premio Ottavio Mai per
il miglior lungometraggio è andato però a Prime Time Soap (A novela das 8) di
Odilon Rocha, suo primo lungometraggio già vincitore per la migliore
sceneggiatura al festival di Rio. Nel Brasile di fine anni 70,
governato dalla dittatura militare, si muovono Dora, donna dal
passato rovente che l'ha tagliata fuori da famiglia e affetti, a cui
cercherà di riavvicinarsi dopo un gesto irrimediabile; Amanda, a cui
fa da cameriera, prostituta frivola – ma destinata a maturare –,
fan di “Dancin'Days”, telenovela che Rocha elegge a simbolo della
possibilità di sognare in quel contesto ma che poteva essere presa
pure come velo per ciò che accadeva nel paese; Caio, che è figlio
di Dora e non lo sa e la cui omosessualità – tema non centrale nel
film – sboccia nel flirt con il figlio di un importante medico;
Vicente, ex compagno di Dora che ha optato per la militanza politica
clandestina; Brandao, funzionario di polizia arrabbiato e violento.
Stilisticamente corretto, è un film godibile, che emoziona a
sufficienza, di taglio volutamente un po' popolare, catartico nel far
vincere l'amore e la vita anche a scapito della credibilità. Ancora
in concorso, il quantomeno discreto Keep the Lights On di Ira
Sachs, Teddy Award all'ultima Berlinale: la relazione tormentata fra
Erik, un documentarista aduso a cercare sesso occasionale e Paul, un
avvocato ufficialmente etero che casca e ricasca nella dipendenza
dalla droga. Molta sensibilità in un racconto che si focalizza sulla
solitudine di chi aspetta l'altro e soffre, in questo caso il
personaggio di Erik. Anche se le ellissi non evitano buchi (che fine
fa la ragazza di Paul?) e il quieto realismo sfiora, prima della
fine, la noia.
Nella sezione “Lesbian
romance”, interessante Trigger, nuovo film di Bruce McDonald
(Pontypool). Vic e Kat facevano parte di un gruppo punk rock e
a distanza di anni dalla rottura non serena, la seconda ritrova la
prima per convincerla a partecipare ad una breve reunion. Differenze
caratteriali e vecchi rancori, ma anche confessioni personali in un
film che si snoda lungo una notte e si conclude all'alba senza un
climax né un amore che sboccia, ma semplicemente col recupero di un
rapporto. Tanto dialogo, ovviamente e due buone attrici (poca musica,
però): il risultato è una pellicola ad altezza uomo che fa simpatia
e ha le carte in regola per piacere senza essere ruffiana. Con uno
scarto onirico che fa sgranare gli occhi.
Anche Bye Bye
Blondie, il nuovo film della Virginie Despentes di Baise moi,
è la storia del riavvicinamento di due donne, che però erano
effettivamente state amanti, da ragazzine. Gloria, ai ferri corti coi
genitori e dedita ad isterie (Soko, “nuova regina del pop
francese”: se ne prende atto), e Frances si conoscono in istituto
psichiatrico e si piacciono anche se, una volta fuori, vien fuori che
la prima è punk e l'altra skin. Molti anni dopo, la prima (Dalle) è
una nullafacente, la seconda (Béart) una famosa presentatrice tv con
marito gay, sposato per le apparenze. Si rivedono e riattraggono, ma
Frances si vergogna dell'amante-mina vagante incapace di stare in
società e la confina in una parte di casa sua. In parallelo scorrono
le storie della coppia da giovane e di quella attuale. Si tratta in
pratica di una commedia, che non scandalizza (e vabbè: le due coppie
si baciano e strusciano vestite, anche se Clara Ponsot, che fa
Frances da giovane, è sensuale), ma nemmeno graffia, se non in una
sorta di colpo di scena quasi alla fine e certe scene giovanili
suonano insincere. Gli elementi che catturano l'attenzione sono il
corpo ingombrante di Béatrice Dalle e il volto tristemente limitato
dal silicone di Emanuelle Béart.
Lesbiche pure in
Joe+Belle, commedia nera, dall'Israele, che racconta il legame
che nasce, e si trasforma poi in attrazione, tra una ragazza
(letteralmente) matta e un'altra nel cui appartamento lei si è
installata, dopo un omicidio non premeditato che le costringe a
diventare fuggiasche, senza che la cosa rovini certo loro la vita. Le
due ragazze funzionano e c'è qualche divertente momento stralunato. Il film è stato preceduto da un corto ungherese, Tough Girls Don't Dream, dallo spunto bello – un mondo in cui il sonno è proibito e sognare è concesso solo a professionisti tesserati che poi rendono i loro sogni visibili a tutti – ma deludente.
Nella sezione Vintage si
è visto Come mi vuoi, presentato dal regista Carmine Amoroso
che (oltre a mostrarsi convinto che il film fosse del 1997 invece che
di un anno prima) ha ricordato la fredda accoglienza da parte della
comunità gay verso questo film di cui temeva non esistesse più una
copia in pellicola e che avrebbe voluto girare Monicelli. In questa commedia con Enrico Lo Verso travestito
che fa “innamorare” un Vincent Cassel poliziotto fidanzato di
Monica Bellucci, alcune battute suscitano risate volontarie (così
come certe uscite dialettali della Bellucci), ma il film, quantomeno
acerbo, soffre di evidenti problemi di polso e ritmo e l'andazzo
recitativo di Lo Verso – che pure, sostiene Amoroso, aveva voluto
quel ruolo – non aiuta. Riscoperte più effettive, Amici
complici amanti (1988) e Le amicizie particolari (1964). Il
primo è scritto e interpretato da Harvey Fierstein – al pari della
piece teatrale da cui nasce – , che impersona un protagonista
troppo “checca”, smorfioso (penosa la scena con le pantofole a
coniglio) e battutista, alle prese con i suoi amori, con una madre
(Anne Bancroft) che non si fa una ragione della sua omosessualità e
un figlio adottivo. È
comunque un film gay mainstream riuscito e brillante. Il secondo,
diretto da Jean Delannoy, è un pudico ma audace racconto di
sentimenti castrati dall'alto, in quanto sconvenienti, all'interno di
un collegio gesuitico. Fa sorridere il doppiaggio italiano che, in
stile ventennio, nazionalizza i nomi francesi.
Tra i documentari, è
stato riproposto Il “fico” del regime di Ottavio Mai e
Giovanni Minerba (direttore del festival), ritratto di Giò Stajano,
scomparso l'anno scorso, tecnicamente datato e povero e senza
preoccupazioni di ritmo. Giò, che era diventato donna da una decina
d'anni, si aggira (troppo) lungamente per la casa dei suoi avi e
racconta un po' di sé, con consapevolezza e umorismo. In più, un
blocco di alcune sue apparizioni cinematografiche.
Schuberth-L'atelier della dolce vita di Antonello Sarno, invece,
è un breve omaggio al sarto delle dive italiane anni 50 e 60,
interessante per un micidiale aneddoto raccontato da Christian De
Sica, per una Lollobrigida che dice le sue cose, guardando in
macchina, didatticamente e soprattutto per i brani di cinegiornali in
cui Schuberth è oggetto di frecciatone omofobe non da poco (per le
quali, però, pare non se la sia mai presa).
Alessio Vacchi
Nella foto, Gina Lollobrigida ed Emilio Federico Schuberth.
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