sabato 28 aprile 2012

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 27 TORINO GLBT FILM FESTIVAL, 19-25/4/2012


Senza preamboli e focalizzandosi sulle cose effettivamente viste.
Senza dubbio il miglior film, tra quelli nuovi, per chi scrive è stato Beauty (Skoonheid) di Oliver Hermanus, in concorso. Sudafricano bianco, benestante, proprietario di una segheria, sposato ad una moglie verso la quale ha un atteggiamento freddo come per ogni cosa della sua vita, François è nascostamente gay (è solito ritrovarsi con altri come lui, che però sostengono “Non siamo finocchi”) e prova desiderio per il bel nipote, finché non gli appare la possibilità, mentendo e forzando le cose, di averlo. Di rado è stato portato sullo schermo un tale ritratto di incapacità di accettare serenamente la propria preferenza sessuale. Il film è come un lungo grido soffocato, di dolorosa bellezza, che mette in scena un'esistenza paurosa, dove non c'è amore e non c'è luce, non c'è spiraglio d'uscita ma solo repressione di sé e conformismo che formano una pentola a pressione umana verso cui si prova pena. Se la regia di Hermanus è di quelle distaccate e spietate, a base di inquadrature lunghe che non risparmiano nulla e contemplano i tempi morti nel seguire il protagonista – una impostazione da film d'autore non nuova, ma assolutamente efficace – , una parte del peso del film la regge quest'ultimo, un congruamente controllato e credibile Deon Lotz. L'inquietudine è sottile e persistente, messa a fuoco molto bene in sequenze come quella in cui François si lascia andare, smarrito, in discoteca. Non per tutti (contiene un paio di sequenze shock, quasi simpatica in sè la prima e disturbante la seconda; e uno spettatore giorni dopo: “È come due Ludwig messi assieme!”), con un finale forse sin troppo sospeso e simbolico, ma, se ne si coglie l'intensità, Beauty è notevole.
Il premio Ottavio Mai per il miglior lungometraggio è andato però a Prime Time Soap (A novela das 8) di Odilon Rocha, suo primo lungometraggio già vincitore per la migliore sceneggiatura al festival di Rio. Nel Brasile di fine anni 70, governato dalla dittatura militare, si muovono Dora, donna dal passato rovente che l'ha tagliata fuori da famiglia e affetti, a cui cercherà di riavvicinarsi dopo un gesto irrimediabile; Amanda, a cui fa da cameriera, prostituta frivola – ma destinata a maturare –, fan di “Dancin'Days”, telenovela che Rocha elegge a simbolo della possibilità di sognare in quel contesto ma che poteva essere presa pure come velo per ciò che accadeva nel paese; Caio, che è figlio di Dora e non lo sa e la cui omosessualità – tema non centrale nel film – sboccia nel flirt con il figlio di un importante medico; Vicente, ex compagno di Dora che ha optato per la militanza politica clandestina; Brandao, funzionario di polizia arrabbiato e violento. Stilisticamente corretto, è un film godibile, che emoziona a sufficienza, di taglio volutamente un po' popolare, catartico nel far vincere l'amore e la vita anche a scapito della credibilità. Ancora in concorso, il quantomeno discreto Keep the Lights On di Ira Sachs, Teddy Award all'ultima Berlinale: la relazione tormentata fra Erik, un documentarista aduso a cercare sesso occasionale e Paul, un avvocato ufficialmente etero che casca e ricasca nella dipendenza dalla droga. Molta sensibilità in un racconto che si focalizza sulla solitudine di chi aspetta l'altro e soffre, in questo caso il personaggio di Erik. Anche se le ellissi non evitano buchi (che fine fa la ragazza di Paul?) e il quieto realismo sfiora, prima della fine, la noia.
Nella sezione “Lesbian romance”, interessante Trigger, nuovo film di Bruce McDonald (Pontypool). Vic e Kat facevano parte di un gruppo punk rock e a distanza di anni dalla rottura non serena, la seconda ritrova la prima per convincerla a partecipare ad una breve reunion. Differenze caratteriali e vecchi rancori, ma anche confessioni personali in un film che si snoda lungo una notte e si conclude all'alba senza un climax né un amore che sboccia, ma semplicemente col recupero di un rapporto. Tanto dialogo, ovviamente e due buone attrici (poca musica, però): il risultato è una pellicola ad altezza uomo che fa simpatia e ha le carte in regola per piacere senza essere ruffiana. Con uno scarto onirico che fa sgranare gli occhi.
Anche Bye Bye Blondie, il nuovo film della Virginie Despentes di Baise moi, è la storia del riavvicinamento di due donne, che però erano effettivamente state amanti, da ragazzine. Gloria, ai ferri corti coi genitori e dedita ad isterie (Soko, “nuova regina del pop francese”: se ne prende atto), e Frances si conoscono in istituto psichiatrico e si piacciono anche se, una volta fuori, vien fuori che la prima è punk e l'altra skin. Molti anni dopo, la prima (Dalle) è una nullafacente, la seconda (Béart) una famosa presentatrice tv con marito gay, sposato per le apparenze. Si rivedono e riattraggono, ma Frances si vergogna dell'amante-mina vagante incapace di stare in società e la confina in una parte di casa sua. In parallelo scorrono le storie della coppia da giovane e di quella attuale. Si tratta in pratica di una commedia, che non scandalizza (e vabbè: le due coppie si baciano e strusciano vestite, anche se Clara Ponsot, che fa Frances da giovane, è sensuale), ma nemmeno graffia, se non in una sorta di colpo di scena quasi alla fine e certe scene giovanili suonano insincere. Gli elementi che catturano l'attenzione sono il corpo ingombrante di Béatrice Dalle e il volto tristemente limitato dal silicone di Emanuelle Béart.
Lesbiche pure in Joe+Belle, commedia nera, dall'Israele, che racconta il legame che nasce, e si trasforma poi in attrazione, tra una ragazza (letteralmente) matta e un'altra nel cui appartamento lei si è installata, dopo un omicidio non premeditato che le costringe a diventare fuggiasche, senza che la cosa rovini certo loro la vita. Le due ragazze funzionano e c'è qualche divertente momento stralunato. Il film è stato preceduto da un corto ungherese, Tough Girls Don't Dream, dallo spunto bello – un mondo in cui il sonno è proibito e sognare è concesso solo a professionisti tesserati che poi rendono i loro sogni visibili a tutti – ma deludente. 
Nella sezione Vintage si è visto Come mi vuoi, presentato dal regista Carmine Amoroso che (oltre a mostrarsi convinto che il film fosse del 1997 invece che di un anno prima) ha ricordato la fredda accoglienza da parte della comunità gay verso questo film di cui temeva non esistesse più una copia in pellicola e che avrebbe voluto girare Monicelli. In questa commedia con Enrico Lo Verso travestito che fa “innamorare” un Vincent Cassel poliziotto fidanzato di Monica Bellucci, alcune battute suscitano risate volontarie (così come certe uscite dialettali della Bellucci), ma il film, quantomeno acerbo, soffre di evidenti problemi di polso e ritmo e l'andazzo recitativo di Lo Verso – che pure, sostiene Amoroso, aveva voluto quel ruolo – non aiuta. Riscoperte più effettive, Amici complici amanti (1988) e Le amicizie particolari (1964). Il primo è scritto e interpretato da Harvey Fierstein – al pari della piece teatrale da cui nasce – , che impersona un protagonista troppo “checca”, smorfioso (penosa la scena con le pantofole a coniglio) e battutista, alle prese con i suoi amori, con una madre (Anne Bancroft) che non si fa una ragione della sua omosessualità e un figlio adottivo. È comunque un film gay mainstream riuscito e brillante. Il secondo, diretto da Jean Delannoy, è un pudico ma audace racconto di sentimenti castrati dall'alto, in quanto sconvenienti, all'interno di un collegio gesuitico. Fa sorridere il doppiaggio italiano che, in stile ventennio, nazionalizza i nomi francesi.
Tra i documentari, è stato riproposto Il “fico” del regime di Ottavio Mai e Giovanni Minerba (direttore del festival), ritratto di Giò Stajano, scomparso l'anno scorso, tecnicamente datato e povero e senza preoccupazioni di ritmo. Giò, che era diventato donna da una decina d'anni, si aggira (troppo) lungamente per la casa dei suoi avi e racconta un po' di sé, con consapevolezza e umorismo. In più, un blocco di alcune sue apparizioni cinematografiche. Schuberth-L'atelier della dolce vita di Antonello Sarno, invece, è un breve omaggio al sarto delle dive italiane anni 50 e 60, interessante per un micidiale aneddoto raccontato da Christian De Sica, per una Lollobrigida che dice le sue cose, guardando in macchina, didatticamente e soprattutto per i brani di cinegiornali in cui Schuberth è oggetto di frecciatone omofobe non da poco (per le quali, però, pare non se la sia mai presa).
Alessio Vacchi

Nella foto, Gina Lollobrigida ed Emilio Federico Schuberth.

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