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giovedì 7 dicembre 2017

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 35 TORINO FILM FESTIVAL. BLUE KIDS

Italia 2017. Di Andrea Tagliaferri.

Fratello e sorella vengono esclusi dall'eredità della madre, e il padre se ne frega delle loro rimostranze (che lavorassero, piuttosto). Si decidono allora, con scarsissime remore, per un'azione estrema, punitiva, coinvolgendo come complici prima un ragazzo e dopo una giovane (Matilde Gioli), che si ritroveranno in balìa delle loro bizzose decisioni criminali.
Tagliaferri, che co-sceneggia, è da anni aiuto regista di Matteo Garrone, che con la sua Archimede produce questo esordio (insieme a RaiCinema). Esordio che per qualche aspetto ne ricorda un altro, italiano e in concorso lo scorso anno, I figli della notte: contestate (Blue Kids ha schifato alcuni, ha fatto partire dei fischi, mentre altri lo difendono sostenendo “imperfetto ma...”) opere prime di registi che sembrano voler lasciare un segno “utilizzando” per la prima volta la macchina da presa in un modo vistoso. Il film è infatti estremamente concentrato sull'aspetto visivo: Tagliaferri ama giocare tra quel che a fuoco e quel che non lo è (ad esempio nelle inquadrature in cui è fuori fuoco quel che non è in primo piano e lo sono i volti che si affacciano vicino alla camera), tra quel che è in campo e quel che lascia fuori (esempi: la cerebrale scelta di lasciare praticamente ai margini il fattaccio principale, o la sorella che si sveglia mentre di là si sta facendo l'amore). Insomma, non è che qui manchino idee di regia, anche nel solco di un certo cinema contemporaneo attento all'immagine studiata o seducente (vedi il padre al lavoro circondato dai pulcini, o l'immancabile [?] passaggio con la protagonista che canta, su un palco). Ma questo mettersi in mostra come regista, trascurando la scrittura alla lunga non si rivela vincente, producendo un risultato carente e con un che di asfittico, nonostante Tagliaferri ogni tot posi lo sguardo sugli ambienti che circondano i luoghi della vicenda, e stemperi, cercando il dolente, con le (belle) note in colonna sonora.
Di per sé si può considerare apprezzabile la scelta di una storia nera, con due protagonisti negativi, di bell'aspetto ma di fatto freddi, chiusi assassini (a margine c'è il loro modo non convenzionale di vivere la sessualità: lei è lesbica e il personaggio della cameriera Gioli viene condiviso dai due), con cui non si empatizza. Storia abbastanza essenziale (il film dura appena 75') ma resa più significativa, almeno nelle intenzioni, dallo stile. Se il fatto che i personaggi del film non abbiano un nome può suggerire un che di universale, al di là di suggestioni cronachistiche, resta che i due non risultano né rappresentativi di qualcosa come un disagio giovanile, societario, contemporaneo, e neppure ne esce un buon ritratto di due personalità: il disegno dei personaggi è vago, e non basta il pensare che sia cosa intenzionale, anche perché pure un accenno di approfondimento, come il ritornare consolatorio dalla nonna che li riporta a quand'erano bambini, resta lì, appeso. I dialoghi non sono molti, ma qualche volta deludono, andando nel didascalismo, così come non persuadono alcune svolte di sceneggiatura (la sorte della cameriera), un debole finale aperto o volendo anche una situazione che sembra di riporto come lui che si incazza con lei una volta giunti nel “rifugio”nel riporto (quando lui si arrabbia con lei..).
Lo sguardo tra l'ambizioso, il distante e l'amorale del regista va alla ricerca di un mood, ma è come se Blue Kids fosse un esperimento di cinema fatto di più componenti, non tutte malvagie, che però insieme non quagliano in un film riuscito. Tra i due protagonisti, è Agnese Claisse, rispetto a Fabrizio Falco, a bucare di più lo schermo.
A.V.

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 35 TORINO FILM FESTIVAL. THICK LASHES OF LAURI MÄNTYVAARA


Tit. or.: Lauri Mäntyvaaran tuuheet ripset. Finlandia/Francia 2017. Di Hannaleena Hauru.

Le giovani amiche Satu e Heidi (più maschiaccia la prima, bella bionda l'altra) sabotano feste di matrimonio, avverse a una concezione “commerciale” di quel che dovrebbe essere un passo importante di cui poi ci si rischia di pentire. Soprattutto la prima, che considera l'amore con distacco. Quando Heidi si innamora di un giocatore di hockey su ghiaccio, l'amica entra un po' in crisi. Ha dei dubbi su di lui, poi aiuta il ragazzo a sciogliersi dai gioghi del dovere e avviare realmente un rapporto con Heidi, ma Satu ha difficoltà a fare i conti con i propri sentimenti. In questo non è sola, e quando le cose non vanno come si vorrebbe, o non si riesce a instradarle nelle direzioni desiderate, ne risentono anche i rapporti interpersonali.
Scritto e diretto da una esordiente (classe 1983) e presentato in “Festa mobile” sotto l'egida del TorinoFilmLab, è uno dei film tutto sommato più trascurabili tra quelli visionati in questo festival. Commedia con qualche simpatica apertura surreale più che altro nella prima parte (con dei gattini come leit motiv) ma che poi, nonostante parentesi quali un passaggio addirittura “meta” (la ri-messa in scena di un abbraccio visto poco prima, per analizzarlo, attraverso un attore “anonimo”), si guarda senza convinzione. Si è dalle parti di un film per ragazzi, dominato dalla logorrea di una protagonista dalla voce poco gradevole (diciamo: viva le persone imperfette al cinema? Oppure che c'è un qualcosina di respingente, e l'impermeabilità della lingua non ci aiuta? Ognuno valuti).
Partendo dallo spunto iniziale (comunque non folgorante) di questa coppia sabotatrice, qualcosa dopo non ingrana come dovrebbe nell'andarsi a focalizzare sulle questioni sentimentali (tra chi sa chi vuole e chi lo capisce dopo...) delle due amiche. Qualche volta Inka Haapamäki (Satu) strafà mimicamente, ma c'è poco humour al di sopra del mood leggermente dolceamaro; e quando si ride è per un paio di passaggi “volgari”, il dialogo tra le due ragazze dopo la prima azione e più avanti Satu che racconta male una barzelletta sull'incontro con una femminista (a cui bisogna dire che ha un bel cervello...) per spezzare un momento di tensione. Va a finire che anche quando il film sembra rialzare un po' la testa stilisticamente (la scena con Satu e il suo possibile ragazzo soli, in cui lei prende tempo con la musica e si sblocca molto lentamente, non è male), allo spettatore non frega abbastanza perché certi passaggi reggano bene, per esempio quando lei fa una capata sulla “Yoghurt Cruise”, crociera di cui si parla lungo il film e cui partecipano tanti maschietti che chissà cosa combineranno. E certe piccole cose rimangono confusamente di contorno, come i tizi “freak” che vivono sulla sabbia, vicino la capanna costruita da lei; non ben risolta anche la questione delle “geishe scandinave” e relativo corso per creare donne che si comportino a modo a fianco di un marito.
Sorprende un po' che le cose non si sistemino per i due personaggi principali, anzi tre contando il Lauri del titolo, e restino come minimo sospese. Ma di questa direzione del film ci si limita a prendere atto, più che effettivamente riuscire ad apprezzarla: perché non è stata sostenuta da qualcosa di solido fin lì. In definitiva, un film tiepido tiepido, dalle polveri bagnate, che non riesce a creare bene un piccolo mondo nel quale far muovere i suoi giovani personaggi. E per larga parte non se ne comprende bene, artisticamente almeno, l'inserimento in un festival.
A.V.


Io c'ero. Festival ed eventi vari. 35 TORINO FILM FESTIVAL. FINAL PORTRAIT


UK 2017. Al cinema dal 15 febbraio.

Siamo nel 1964, a Parigi, quando James Lord, americano scrittore e biografo di alcuni artisti, accetta di posare per Alberto Giacometti, praticamente amico oltre che pittore e scultore “di fama internazionale”. Dovrebbe essere questione di qualche sessione, di poche ore. Ma Lord si troverà incastrato nel processo di creazione artistica del mai soddisfatto, volubile Giacometti, transitando giorni e giorni per il suo atelier per quel quadro che sembra non possa essere finito.
Convenzionale, patinato, di maniera: il film scritto e diretto dal solitamente attore Stanley Tucci e basato su Un ritratto di Giacometti di James Lord è stato criticato così da alcuni. Ma a chi scrive sembrano giudizi che si fermano non oltre la superficie di un film più che dignitoso.
Final Portrait opta per una fotografia leggermente desaturata, tanto per renderci chiaro che siamo distanti nel tempo attraverso una “patina”. In ogni caso, l'uso di scorci, locali tipici e cose parigine varie, dai bistrot alle baguettes, è limitato; perché, è in questo il film è centrato e vincente, in buona parte stiamo nello studio dell'artista, introdotto con una sequenza in cui lui vi si aggira lungamente, toccando, spostando, preparando.
L'Alberto Giacometti del film fuma e beve come di prammatica e come un dannato, ma soprattutto è molto duro con la sua arte, oltre che con quella altrui (ha delle rimostranze su Picasso, mentre su Cézanne sentenzia: è l'ultimo grande pittore). Interrompe il lavoro sul quadro in continuazione, per motivi noti solo alla sua testa, ed è capace di affermazioni tipo “Quando la speranza è al massimo, mi sento perduto”, come dice al suo modello, lasciandolo ulteriormente senza difese. L'opera d'arte a cui lavora sembra andare oltre il suo controllo, e inquietantemente la si dice destinata a non avere una fine, a non poterla avere: e quindi dev'essere, abilmente, imposta.
Rush è perfetto, e se impersona in un modo non fuori dai canoni un artista arruffato e a cui è difficilissimo stare dietro, l'interpretazione comunque è viva e basterebbe a renderla degna di lodi il passaggio in cui Giacometti si mette a letto trasformandosi anche nel non verbale, mutando la sua inquietudine e l'incedere ingobbato nella stasi di un vecchietto malato e remissivo, tra le coperte. Ma anche gli altri attori e personaggi intorno sono degni di nota: Tony Shalhoub nei panni del fratello artista Diego, Clémence Poésy (vista in questo TFF anche in Tito e gli alieni) nella parte della giovane prostituta che è la passione di Alberto, Sylvie Testud che fa sua moglie, un po' rassegnata un po' non doma un po' amorevole. Hammer meno, ma anche perché è costretto nel ruolo, bel ragazzo sempre ben vestito e composto e testimone non intrusivo di un ambiente, oltre che contrapposizione ambulante dell'artista: l'uno immobile, o quasi, l'altro quasi mai.
Ma a conti fatti il film è interessante anche per la sua struttura. Diviso nelle giornate delle sedute al cavalletto, racconta però una tranche de vie dall'andamento piano, senza veri picchi; c'è una sequenza di “montage” per sunteggiare alcuni di questi giorni verso la fine, ma gli atti di una sceneggiatura tradizionale non si fanno notare. E il climax, quel che sblocca e porta a conclusione il “calvario” dei protagonisti, è repentino. Complessivamente, quindi, un lavoro godibile e migliore di quanto la scorza da biopic semi-d'essai per un pubblico tranquillo possa far presagire. Un poco di tremolio in meno nell'uso della macchina a mano sarebbe stato gradito.
A.V.

 

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 35 TORINO FILM FESTIVAL. TITO E GLI ALIENI

Italia 2017. 
  
Valerio Mastandrea è un non molto probabile professore (senza nome: è chiamato il Professore, o “zio”, a seconda) che vive praticamente isolato in mezzo al deserto del Nevada. Tra il container che gli fa da appartamento e l'antro in cui sperimenta, sta trascinando da anni una ricerca per conto del governo degli Stati Uniti, al fine di comunicare con altre forme di vita nello spazio. Crucciato dal non essere più riuscito a captare nuovamente un segnale dalla moglie morta tempo prima, il Professore è abituato giusto agli incontri con la giovane assistente Stella, finché gli capitano tra le gambe due nipoti, fratello minore (Tito) e sorella maggiore, figli dello zio defunto che gliene ha annunciato l'arrivo con un video. La vita del Professore si fa più disordinata, ora che deve badare ai due: senza contare che Tito si impiccia nei suoi esperimenti, perché ha la fissa del parlare col padre – e usa farlo attraverso una fotografia su uno smartphone – , e sul lavoro del Professore incombe un ultimatum dei militari (che sono “da cinema”, di ghiaccio, non malleabili).
Scritto e diretto da Paola Randi (il cui lungo precedente è Into Paradiso: non visto, ma a leggerne la trama si trovano delle analogie, a cominciare da un protagonista scienziato), Tito e gli alieni è passato in “Festa mobile” ed è stato accolto come una piccola sorpresa. Qualche motivo c'è.
I sostenitori della perenne “rinascita” italica qui potrebbero trovare un poco di pane per i loro denti, in questo film con un uso superiore al solito, per un lavoro italiano, di effetti speciali. Anche se il colore è quello di una commedia, anzi quasi una commedia per ragazzi, oltre che “con”. Mastandrea non è protagonista assoluto, ci mette un poco ad entrare in scena e un altro pezzo ad aprire realmente bocca e il film si dedica abbastanza pure ai due ragazzini, invero non sempre simpatici perché la napoletanità non equivale necessariamente a risata, e le cui uscite dialettali non sempre sono comprensibili (ma non per questioni culturali... ma di dizione e audio: signori del cinema italiano, qualche volta non si capiscono le battute dei vostri/nostri film. Al TFF lo si è notato anche in Blue Kids). L'attore romano fa quello che gli riesce meglio: un personaggio di uomo insicuro, goffo, spalmando la sua naturale carica di simpatia in diversi momenti che strappano il sorriso. E il film va avanti così, tra un po' di humour, un po' di tenerezza e di malinconia, condito dalla componente di vitalità giovane e regionalistica dei due nipoti (ma anche Mastandrea sfoggia un accentello napoletano, con risultati accettabili) e puntellandosi con un deciso uso di (belle) canzoni, compreso un Chet Baker. Ma tutte queste componenti insieme, mettendoci anche gli spettacolari panorami naturali – e non: l'antro segreto del professore, con il robot “Linda”... – , lasciano un che di amaro in bocca, perché si bolla presto il film come “carino” ma con carte limitate da giocare, che sono quelle già messe sul piatto, e poco da dire.
Nell'ultima parte si fa più movimentato, seguendo in parallelo i personaggi che si muovono verso l'Area 51 (sic), e poi ecco che ti frega: perché quando si giunge all'accarezzato, rimandato, finora fallimentare esperimento, tocca corde tali, andando a chiudere il tema del comunicare con chi non c'è più, che è arduo non emozionarsi. Lì diventa più chiaro che questo filmetto ha le sue ambizioni non solo a livello di confezione (con una fotografia leggermente accesa) e di flirt con qualche “genere”, ma perché parla di cose ultime in un modo efficace, che sarebbe ipocrita non riconoscere (e non saranno stati casuali i soffiamenti di naso in sala negli ultimi minuti). Si spinge tanto in questa direzione che poi si sente di correggere con una nuova nota umoristica. Certo, il tutto richiede una certa sospensione di incredulità, ma un piccolo segno lo lascia.
A.V. 

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 35 TORINO FILM FESTIVAL. A TAXI DRIVER

Tit. or.: Taek-si-un-jeon-sa. Corea del Sud 2017. Di Jang Hoon.

Corea del Sud, 1980. Man-seob fa il tassista a Seoul, e intorno a lui ci sono avvisaglie di un clima difficile, con manifestazioni contro il recente colpo di stato. Cogliendo la possibilità di un affare, si propone come autista a Peter, reporter tedesco determinato ad andare nel cuore di quel che sta accadendo, ovvero nella cittadina di Gwangju: tagliata fuori da tutto e militarizzata, vi è in corso quella poi nota col nome di Gwangju Uprising, con un sacco di persone impegnate in proteste. Arrivati, con difficoltà, alla cittadina, la trovano desolata ma si legano a un giovane militante, prima di conoscere altre persone in loco. Testimone di una repressione brutale e cieca, Man-seob vorrebbe tornare indietro, e sprona in tal senso il giornalista. Poi subentra in lui la necessità dolorosa di restare.
Grandissimo successo in Corea del Sud (è diventato il decimo film nazionale più visto là), che l'ha proposto come suo concorrente all'Oscar per il miglior film straniero, A Taxi Driver è stato comunque, a quanto si è colto, ben apprezzato anche nel piccolo del festival. Ed è un “filmone” per il pubblico, popolare, più che per il cinefilo, che può goderne ma storcendo un poco il naso.
La sua forza si basa sul terribile passaggio storico nei cui giorni è ambientato. Gwangju divenne un confinato laboratorio di repressione, anzi si direbbe di eliminazione di una parte del popolo (ci restarono circa 600 persone, pare). L'approccio per raccontare questa pagina nazionale di abbandono alla violenza è diretto; non siamo dalle parti di un Larrain, che a chi scrive è balenato in mente (Post mortem) vedendo le immagini dell'ospedale che sembra un macello, pieno di feriti, morti e sangue, ma tra questo e i soldati in posizione che, in una sequenza abbastanza incredibile e frustrante, verso la fine, falciano sistematicamente chi capita nel loro raggio di tiro, difficile che un pensiero non vada a quanto può essere bestia, e massacratore assurdo dei suoi simili, l'uomo.
Pazienza per quella componente di retorica, comprensiva di proiettili che bucano gambe e vetri al ralenti. D'altronde il film rende “cinematografico” e spettacolarizza il suo tutto: il capo del servizio segreto è uno di quei tipi torvi e serissimi, sicuro di sé e aduso alla violenza, magari elargita a scatto dopo attimi di stasi; se l'esercito rappresentato nel film si abbandona a sadici pestaggi degni della malavita, lui sembra un gangsterello. Ma in due ore e passa che divertono, emozionano, lasciano sgomenti, c'è spazio d'altronde anche per un multiplo inseguimento su quattro ruote.
Il protagonista è da subito rappresentato come lamentoso e insensibile ma simpatico, e nelle sue parole già si vedono i germi del futuro ripensamento sulla madrepatria: dal ritenere che quegli scioperati dei manifestanti dovrebbero invece ringraziare di vivere dove è loro toccato, al non riuscire a ignorare le bassezze del potere cui ha assistito. Si è presto dalla sua parte, un poco meno da quella del reporter: anche per via della sua carica, a livello di performance vince Song Kang-ho (attorone, che si è visto anche in alcuni film sudcoreani acclamati pure qui, di Park Chan-wook e Bong Joon-ho) rispetto a un giusto ma senza guizzi Thomas Kretschmann.
Tra i valori ribaditi dal film, il dovere della testimonianza – filmata: il reporter finché può ha sempre la camera in mano, e a un certo punto sarà il tassista a spronare l'altro, mentre entrambi si sentono provati, a riprendere in mano quello strumento: ulteriore passaggio della presa di coscienza da parte di un uomo che si è cacciato in una parte andata in malora di un mondo del quale si fidava. A Taxi Driver è solo secondariamente, però, la storia di un'amicizia: questo aspetto emerge di più sul finire del film, tra il congedo dei due e la coda col video del vero giornalista. Già, perché quanto abbiamo visto è basato su una storia vera anche per quanto riguarda i personaggi: sono realmente esistiti “quel” tassista e “quel” giornalista, e parecchi anni dopo il reporter Jürgen Hinzpeter ha provato a rintracciare pubblicamente chi lo accompagnò in quei giorni, senza successo. Il film si chiude così, ma navigando si aggiunge un tassello: dopo l'uscita, il figlio del “taxi driver” ha confermato l'identità del padre e rivelato che morì nel 1984. 
A.V.


Io c'ero. Festival ed eventi vari. 35 TORINO FILM FESTIVAL. HARPOON

Tit. or. Arpón. Argentina/Venezuela 2017. Di Tom Espinoza.

Arguello, uomo sui 50, fa il preside e ha un pallino: controllare che non ci sia nulla di pericoloso negli zaini degli studenti. Cata, ragazzina che si ribella ai suoi controlli, viene sospettata di aver utilizzato una siringa ritrovata a scuola, e a ragione: con essa, si inietta (e inietta alle compagne che vogliono) una sostanza oleosa nelle labbra per renderle più evidenti. In seguito a un rapido ricovero, Cata dovrebbe essere riportata a casa. Si offre di farlo Arguello, ma i genitori di lei non si trovano. Adulto e ragazzina, prima ai ferri corti, si trovano quindi a condividere più tempo del previsto, in compagnia anche della prostituta-amante di lui, Mica. Ma a un tratto le due non si trovano più. L'uomo va nel panico, e si mette a cercarle estremamente determinato: la sua situazione a scuola è già molto precaria e la ragazzina era sotto la sua responsabilità.
Esordio nel lungometraggio proposto in concorso, Harpoon si presenta con due componenti stilistiche, estetiche fondanti. Una fotografia resa pallida, nella quale i neri più intensi si fanno grigi, e una macchina da presa che nel formato panoramico privilegia il seguire i personaggi da vicino (non vicinissimo) e i primi piani – efficace, in tal senso, il passaggio in cui il preside mette alle strette Cata e compagne – , talora muovendosi rapida tra un volto e l'altro, come in certi confronti a due.
Protagonista è un uomo che si autodefinisce “stanco”, il cui destino segnato è dover lasciare il suo lavoro, e intanto comunque sbaglia ogni mossa: quelle professionali ed educative, perché la sua fissazione di controllore, spinto dall'intento di “pulire” un po' la sua scuola, è ormai malvista e da lui gestita non molto bene quanto a reazioni, e anche quella che, peccando di superficialità, gli fa poi perdere di vista la studentessa.
La visione dei giovani non è buonista: tra loro e gli adulti c'è un muro comunicativo che fra il preside e Cata, a metà film, sembra felicemente rivelarsi meno invalicabile di quanto sembrasse – in macchina, finalmente lei si apre, inizia effettivamente a parlare, a recriminare, a confessarsi sul peso di sentirsi inadeguate a un'immagine ideale, quella che porta i like, e anche a ridere – , poi questo si rivela solo una parentesi. Gli insegnanti li considerano come un grande gruppo chiuso, i cui componenti si intendono tra di loro e comunicano scambiandosi video. In effetti anche noi non siamo quasi mai messi a parte di quel che si dicono i ragazzini e le ragazzine che incrociamo. E che filmano tutto, con gli smartphone realisticamente messi davanti a loro di fronte a ogni accadimento ritenuto degno di testimonianza. “Fumano, scopano...!”, si lamenta il preside di fronte a un ispettore esterno, e i professori riuniti parlano del loro essere ribelli senza causa, ribelli sì ma per cosa? Nel finale comunque c'è una luce di speranza, col discorso discutibile ma ben espresso di una studentessa pasionaria.
Film drammatico che sembra virare al thriller (la ragazza che sparisce, la sua ricerca che passa pericolosamente per un pappa...), con repentini accessi di violenza, conta su di un protagonista, Germán de Silva, molto bravo e naturale; ma sono bravi tutti, e tutte, compresa l'impetuosa collega che lo difende a denti stretti finché può (Ana Celentano), e la “puta”. Per gli haters della messaggistica da cellulare al cinema: qui sono utilizzati un paio di volte, ma non hanno un ruolo significativo.
A.V. 

 

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 35 TORINO FILM FESTIVAL. FIRSTBORN



Tit.or.: Pirmdzimtais. Lettonia 2017. Di Aik Karapetian.

L'apparentemente mite Francis, “il tipo dell'intellettuale” si sarebbe detto una volta, smilzo e con gli occhiali, è sposato con la bionda Katrina, donna onestamente più affascinante di lui. Una notte, rincasando, la coppia subisce l'aggressione di un silente ragazzo in moto, che molesta la donna senza che il marito riesca a evitarglielo: ci prova, ma viene steso. Dopodiché, chi non digerisce l'accaduto non è lei, ma lui, che si interroga sul suo ruolo, l'efficienza, i doveri di un maschio accoppiato che vuole continuare a farsi amare. Tanto da non resistere e andare a scovare e affrontare l'arrogante delinquente, provocandone però senza volerlo la morte. Tace l'accaduto, ma dubbi e gelosie, come quella per l'amico poliziotto di lei, non gli passano. Forse il tizio non è morto. La situazione di coppia si fa tesa, nonostante lei sia incinta. Francis sente di dover fare ancora qualcosa.
Firstborn “scava […] nelle paure maschili”, come scrive la sinossi sul programma. Lo spunto in effetti è notevole e allettante: e parliamone un po', di questo essere maschi e dei fardelli che comporta, nel rapporto con l'altro sesso o meglio, nella triangolazione con gli altri, di maschi. Perché si sa, l'uomo che possa dirsi tale deve essere in grado di proteggere la sua donna e tenersela, oltre che occuparsi dei problemi come da patto neanche tacito (che la moglie rammenta al protagonista), mentre incombono maschi apparentemente più virili e prestanti (e quindi attraenti, pericolosi) intorno, compreso qui un aggressore virile nel fare più o meno quello che vuole – e quel che non gli riesce e non fa, agli occhi di Francis lo fa lo stesso: e vai di incubi in cui l'altro si stringe in amplesso con la sua donna – .
Peccato quindi che questo film proposto in “After Hours” sia parzialmente deludente. Chiaro (sin troppo?) fin dall'inizio nel girare intorno al tema centrale, tra allusioni e simbolismi (lo spettacolino in maschera, la statuetta del “guerriero inadempiente”, il credibile racconto di lei sull'ex corteggiatore), prima di arrivare al fattaccio, è promettente come minimo fino a quando il protagonista va in solitaria a ritrovare l'aggressore. Più avanti però, da quando Francis che ormai sta perdendo la padronanza di sé spinge la moglie ad andarsene, il film perde qualcosa. Il reale, il simbolico, il paranoico si mescolano in modo un po' frustrante (tra l'aggressione a lui, la richiesta-ultimatum di lei “O quell'uomo o il nostro bambino”), la regia continua a cercare estetismi (l'appartamento in rosso, durante la seconda aggressione alla donna), e la fruizione risulta appesantita. Firstborn va in una direzione più o meno horror, atmosferico, cupo anche se talora innevato; la regia però non marca particolarmente il genere, nonostante cerchi la densità con movimenti di macchina lenti o avvolgenti, e bassi in colonna sonora. In definitiva il film si spinge fino in fondo, però lasciando qualcosa di amaro in bocca per la piega presa: forse si sarebbe visto più volentieri uno sviluppo diverso, thriller ma dal guscio più realistico.
A.V. 

lunedì 5 dicembre 2016

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 34 TORINO FILM FESTIVAL, 18-26/11/2016. SULLY

Usa 2016. In sala dal 1° dicembre.

L'aereo di linea che il capitano Sully (Hanks), coadiuvato dal secondo Jeff Skiles (Aaron Eckhart), decide rapidamente di fare atterrare sul fiume Hudson, in piena New York, poteva essere protagonista di un'altra tragedia statunitense con protagonista un velivolo, come viene fatto notare a un certo punto al protagonista; il ricordo dall'attacco alle Twin Towers, al cuore (anche) di una città, è ancora vivo – e come vedremo non è superfluo rilevarlo – . Per far fronte a un problema sorto appena dopo il decollo ed evitare uno schianto in città, Sully prende una decisione rapida che assicura la salvezza di tutti i presenti a bordo. Ma dopo l'impresa, per quanto considerato un eroe dalla gente, Sully e Skiles devono subire un'inchiesta da parte del National Transportation Safety Board: i dati che l'ente raccoglie non collimano con quanto raccontano i protagonisti, e risulta che Sully poteva agire in un altro modo, atterrando all'aeroporto LaGuardia, perché non l'ha fatto?
Basato sul libro scritto dal pilota protagonista della vicenda realmente accaduta, Sully prosegue una linea eastwoodiana, non continua, di lavori incentrati su una figura maschile realmente esistita (il penultimo suo film era il grande successo American Sniper).
Scritto e diretto con la sicurezza e quella misura che non esclude affatto la commozione, la spettacolarità (almeno in questo caso e classicamente intesa) e una retorica comunque tenuta sorvegliata, non va a inserirsi tra il meglio del regista, né tra i suoi film più stimolanti. Non siamo, e pazienza, al livello di quei film che segnarono negli anni 2000 una rinascita artistica, di stima critica e di pubblico come Mystic River e Million Dollar Baby; ma nonostante pare che tutta la critica non la veda così, per chi scrive siamo anche palesemente ben lontani dalla problematicità di un J. Edgar.
Certo il materiale e i temi, messi sul piatto in modo piuttosto chiaro ed esplicito, sono definibili come eastwoodiani. L'individuo (comunque amatissimo dalla gente, in questo caso) e la comunità, che in questo caso è “l'establishment” e che pure, viene riconosciuto, fa semplicemente il suo lavoro; il valore massimo dato all'esperienza vissuta, da chi c'era e da chi di esperienza ne ha alle spalle, contro il dato tecnico che a confronto non è una cosa seria (il che, se si vuole, è anche bollabile come reazionario, ma sia detto en passant, che Clint lo si conosce e non importa certo puntargli un dito contro).
L'esperienza contestata a Sully tocca sottoporla a verifica, e per farlo bisogna ripeterla, riviverla in qualche modo, o almeno avvicinarsi a farlo: attraverso le simulazioni proposte all'udienza, che risultano lievemente goffe e al limite del “for dummies” prendendo l'intero 2.39:1 del film, anche se funzionali al suo discorso, poi “sul serio”. E sul serio significa rivedere l'accaduto una seconda volta (nella finzione, per il tramite dellaudio dell'incidente). Entrambe le volte, in versione estesa e ridotta, la messa in scena dell'evento al cuore del film inchioda alla poltrona, e questo è il minimo che si deve riconoscergli.
Hanks offre una performance quasi toccante, misuratissimo e minimale. Ma la fondamentale sicurezza del suo personaggio, che nonostante la vicenda rischi di levargli il sonno attende fiducioso che le cose vadano come devono andare, non aiuta a fare assumere un peso drammatico al film tale da renderlo realmente memorabile e scosso da particolari onde di chiaroscuri più che lineare, nonostante il peso magno dei flashback. E a fine film (e si intende proprio alla fine: non tanto nella sequenza all'udienza ma nelle immagini sui titoli di coda), dopo la vittoria del fattore umano (eastwoodiana anch'essa, come già ben sappiamo), le anime del film che effettuano il sorpasso sono quelle dell'omaggio al protagonista, a una città e ai suoi valorosi uomini, e a un paese, come un caloroso riabbraccio sotto la bandiera americana.
Questo, certo, non impedisce al film di essere, oltre che emotivamente efficace, godibile anche per noi: la “solita” forza del cinema Usa solido. Che in un certo senso basta, anche senza essere convinti che Sully sia bellissimo o ideologicamente da far innamorare.
Alessio Vacchi

Il trailer: https://www.youtube.com/watch?v=8-r8soVu1D8

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 34 TORINO FILM FESTIVAL. GODLESS

Tit. or. Bezbog. Bulgaria/Danimarca/Francia 2016. Di Ralitza Petrova. Con Irena Ivanova.

Gana, badante in una cittadina della profonda Bulgaria, sottrae agli anziani presso cui lavora i documenti, che il compagno (con cui non c'è -più- sesso, il piacere che si danno è dato dalla morfina) rivende. La polizia li conosce e copre questo traffico, anche quando lui “esagera” nello spaventare un vecchietto che scopre il gioco. L'avvicinamento a Yoan, paziente che denuncia il furto e viene conseguentemente messo sotto accusa e minacciato, segna per Gana una possibile riappropriazione del sentimento dell'empatia, ma è un vicolo cieco.
Progetto nato all’interno di TorinoFilmLab e premiato col Pardo d’oro a Locarno, Godless è scritto e diretto da una regista al primo lungometraggio. Ed è un film rigoroso, indurito e congelato come la protagonista, la cui espressività e i cui sentimenti sono celati, sembrano lontani, come in attesa che lo strato che li protegge si sciolga.
In un film nettamente “autoriale” come questo sembrerebbe forzato parlare di elementi di genere, eppure lo scheletro del film è riconoscibilmente noir: perché abbiamo un personaggio che opera e vive in un sotto-mondo scarso di senso umano, e ne è complice, fino a quando non dice dei “no”, per un risveglio della coscienza che la porta a cercare di uscirne e a quel punto di questo sistema diventerà vittima.
Se la sceneggiatura presenta ellissi decise (e gli stacchi tra le sequenze sono talvolta bruschi), la scelta più forte che la Petrova opera è quella più evidente, che condiziona tutta la visione: il desueto formato 4:3. Scelta espressiva forte, che corrisponde, amplificandolo, al soffocante che caratterizza lo squallido mondo, per povertà di livello di vita e morale, di Gana, quasi sempre in scena, anche se non sempre in campo, sebbene la Petrova le affidi pure dei primi piani lunghi. Il nostro sguardo restringe questo mondo a un modesto rettangolo; la regia però non gioca in modo spiccato, tantomeno abusa, del fuori campo (ed è curiosa un'inquadratura all’interno di un auto che, tagliando fuori conducente e passeggero al fianco, somiglia a un 16:9 errato).
A conti fatti, la Petrova sembra suggerire che una giustizia, lì e ora, non è contemplabile. Tristemente e francamente, la regista traccia un continuum esplicito tra la tradizione di “giustizia” durante il regime comunista e la pseudo-giustizia operata nel film, un sistema che va dal mancato rispetto della persona alla punizione che copre e permette di far continuare uno status quo sporco (vedi il dialogo con l’anziano, o le parole degli agenti in auto nel pre-finale). Però il finale dice di un'altra forma di giustizia, quella del fato (o di un'entità superiore), in modo crudele e beffardo, e riallacciandosi all’avvicinamento alla fede che la protagonista stava compiendo, un modo alla sua portata di provare ad elevarsi, ad accedere a qualcos’altro.
Se nella profonda Romania in cui è ambientato il bel Dogs, altro film presentato nella sezione TorinoFilmLab quest’anno, la polizia “sta a guardare”, impotente e inefficace, una situazione delinquenziale di lunga data, salvo interventi estremi dettati dalla coscienza di un singolo, qui come detto il riavvicinamento di un personaggio a una morale di base c'è, ma il ritratto delle forze dell’ordine è negativo a dir poco. Anche se il mostrare questo potere come depravato anche sessualmente, tra orge e choking, è superfluo come tassello in più.
Un esordio dal passo lento, accidioso; un film compiuto.
A.V.

Il trailer: https://www.youtube.com/watch?v=QnxgAdPDYZ0

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 34 TORINO FILM FESTIVAL. I FIGLI DELLA NOTTE

Italia/Belgio 2016. In sala nel 2017.

Il mite Giulio entra in un esclusivo e isolato college in montagna, in cui rampolli della buona famiglia vengono educati a 360 gradi a essere la classe dirigente di domani. Dopo l'impatto coi bulli – i ragazzi più grandi, con cui non è possibile un buon rapporto – , Giulio fa amicizia con un ragazzo che si autodefinisce borderline, Edoardo, che gli fa conoscere una discoteca/night club, e i due iniziano a frequentarla clandestinamente. Qui Giulio conosce la giovane escort dell'est Elena, un'altra anima con cui entra in sintonia e con lei inizia una relazione. Di fronte all'imposizione da parte dei tutor di non andare più nel locale, alcuni di loro “evadono”. Anche Giulio, che una volta fuori si riunisce a Elena. Qui siamo già a un passo dalla fine del film e si può non rivelare altro.
Accolto alla prima da una claque sproporzionata rispetto al valore del film, unico lungometraggio italiano in concorso a quest'edizione (ma francamente è difficile credere non ci fosse nulla di meglio), I figli della notte è l'esordio alla regia di Andrea De Sica, nipote di Vittorio. figlio di Manuel (e quindi Christian è suo zio), giovane ma non giovanissimo con i suoi 34 anni.
Coprodotto col Belgio, presentato attribuendogli sforzatamente influenze da If... , da Bellocchio e addirittura Lynch (chiaro comunque un richiamo all'innevato Shining), vi trova posto anche un omaggio a De Sica Vittorio, nella riuscita sequenza della fuga cantata dal collegio (vi si sente Vivere, pezzo utilizzato ne Il giardino dei Finzi Contini).
Visivamente e sensorialmente lascia il segno. Con una fotografia curata e una regia che cerca il bello, ha una confezione sopra la media, ma questo non basta a soddisfare. Non lascia indifferenti, ma “riuscito” è un'altra cosa.
De Sica sfoggia uno stile che all'inizio sembra promettente, complici le atmosfere cupe (vedi la sequenza di bullismo notturno) e l'attesa di comprendere dove si andrà a parare, anche quanto a cattiveria. Stile che poi si rivela gonfio, affidandosi a diverse sequenze in discoteca, che difficilmente vengono male, tantopiù se ci spari dentro musiche accattivanti come Ti sento dei Matia Bazar, ma che, superfluamente lunghe, rivelano bene i limiti e il ciurlare nel manico del regista.
L'atmosfera è tenuta su, mascherando il non molto che c'è dietro, con l'aiuto di un tappeto sonoro costellato di bassi che però, ad esempio, in un passaggio come quello in cui gli amici del protagonista entrano per la prima volta nel locale, non ha ragion d'essere, in fin dei conti. Il film mette sul piatto elementi e suggestioni che poi lascia perdere: oltre al bullismo (non perché lo si volesse veder trattato come tema, ma è che pure narrativamente a un certo punto viene spento), quel 10% di horror che ad un certo punto De Sica introduce ma si rivela, oltre che troppo poco per essere preso sul serio, furbo nella sua vaghezza.
Il risultato finale è paradossalmente (dato l'impianto visivo) striminzito, del film se ne vorrebbe di più ma meglio, e il finale giunge inaspettatamente, ma non in senso buono bensì facendo chiedere: tutto qui?
L'impressione è che De Sica sia un esordiente di lusso, non certo privo di talento, che abbia avuto l'opportunità di giocare col cinema. Ci sarebbe voluta una sceneggiatura più completa, con suggestioni più padroneggiate, ambizioni più definite e idee più chiare (sì, il protagonista in fin dei conti compie un suo percorso, è il coming of age di uno squalo, ma di nuovo, il comprenderlo non compensa...), e a costo di sembrare liberticidi anche un produttore che gli stesse col fiato sul collo. Ma stiamo parlando di un film che non è questo e che chissà, forse verrà.
A.V.

Una clip: https://www.youtube.com/watch?v=Oor6D6EKwag

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 34 TORINO FILM FESTIVAL. JESUS

Francia/Cile/Germania/Grecia/Colombia 2016.

Il giovane Jesús è un adolescente che vive a Santiago praticamente da solo, perché il padre viene e più spesso va, passandogli riluttante i soldi che gli servono. Non studia né lavora, ma con gli amici passa il tempo fumando, bevendo, esibendosi sul palco a ballare in gruppo musica pop. Una sera, ubriachi, Jesús e compari si lasciano andare a picchiare a sangue un coetaneo trovato praticamente incosciente in un parco. La notizia che il malcapitato è finito in coma funge da brutale sveglia per Jesús, i cui amici, con logica di gruppo, lo convincono o minacciano a restare omertoso. Ma fingere che nulla stia succedendo è difficile e lui si apre al padre, che si sforza di aiutarlo prendendolo sotto la sua ala e agendo per lui.
Passato a Toronto prima del concorso torinese (in cui il giovane Nicolás Durán ha vinto come miglior attore), il film è l'opera seconda di Fernando Guzzoni dopo il non molto visto Carne de perro.
Un po' programmaticamente controverso, unendo il suo metodo stilistico alla storia e al contesto raccontati il regista si muove tra rigore e furbizia, in un modo che ha convinto poco diversi spettatori un po' sgamati, stando ai commenti colti dopo la visione. Il metodo è quello di piani lunghi, di insistiti primi piani sul protagonista, di inquadrature in cui lui è di spalle e a fuoco mentre il resto è fuori fuoco, o diventa leggibile solo quanto basta per capire cosa lo circonda.
Se funziona l'interminabile sequenza del tentativo di conoscenza e conseguente dispiegamento di violenza verso il ragazzo ubriaco, i passaggi hard, compreso uno gay, sono ancora più una spia del confidare in una forza provocatoria che però (spettatori casuali a parte), nonostante erezioni e rapporti veri o quasi, rischia di risultare “vecchia”.
Un modello di fare cinema non nuovo insomma, anche o soprattutto nel guardare a personaggi giovani, ma che è difficile definire privo di brutale efficacia. La desolazione e il grado zero o quasi delle vite di questi ragazzi dediti solo al piacere e al deboscio, oltre che dai modelli omologati, tra infighettamento estetico e popband entrambi dal sapore bieberiano, colpiscono spiacevolmente e non li si avverte come lontani.
Uno degli aspetti migliori del film è la figura, decisiva, del padre di Jesús. Figura paterna che all'inizio c'è, per poi continare a lasciare il figlio immaturo a sé stesso e infine tornare a danno fatto, a cercare di fare il padre nel senso di proteggere il suo ragazzo, mettendosi in testa di aggiustare quel che di gravissimo ha combinato, e poi di fare la cosa più giusta e di insegnamento, che non è la più facile, a costo di interrompere un legame. Bella l'ellisse che elimina la confessione del giovane al papà, facendoci passare da una scena familiare, a base di una routine che non può più reggere, a un attonito confronto tra lacrime e shock.
Al di là del richiamo cristiano, si può ravvisare anche qui, oltre che per Godless, un collegamento con Dogs, ma sotto un altro aspetto. Anche qui abbiamo delle persone giovani che non riescono ad avere il controllo della propria vita, e chi si prende la briga di risolvere le cose, in modi radicalmente diversi, sono “i padri”.
Una sorta di racconto morale visto con distacco emotivo, Jesús. Un film non per tutti i gusti e meno riuscito di quanto probabilmente crede di essere, ma neppure così scrollabile dalle spalle.
A.V.

Il trailer: https://www.youtube.com/watch?v=Vii_7HL9Gfk

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 34 TORINO FILM FESTIVAL. LAVENDER

Canada/Usa 2016. Con Abbie Cornish, Dermot Mulroney. 

Jane ama fotografare case isolate. Non ha mai fatto pace coi vaghi ricordi della casa in cui ha vissuto da bambina e in cui era stata testimone (solo?) di un massacro. Ha visioni improvvise di bimbe e le capita di trovare oggetti: momenti che la portano a un incidente dopo il quale perde momentaneamente la memoria. Con marito e figlia, si trasferisce allora proprio nella casa dell'infanzia, non lontano da uno zio ritrovato, dove le visioni si intensificheranno fino a consentirle di fare i conti definitivamente col passato lontano e scoprire chiaramente cosa era accaduto circa trent'anni prima.
Di Ed Glass-Donnelly si era visto anni fa al TFF Small Town Murder Songs, un crime-movie intenzionalmente lasso. Questo Lavender, visto nella sezione “After hours”, è un film che, volendo cercare di etichettarlo, è più pienamente di genere, e in modo più classico (nel mentre, il regista ha diretto il sequel di The Last Exorcism, uscito anche in Italia), ma confrontando (a memoria) i due film, era meglio quando questi benedetti generi li prendeva più alla larga e in modo più personale.
L'approccio visivo del regista è all'insegna dell'ovattato. Si susseguono con una certa placidità visioni a vantaggio della protagonista e dello spettatore, comprese bambine che si fanno correre dietro (ma anche uomini, in un passaggio, non da buttare, nel quale la protagonista si intrappola in un labirinto di balle di fieno).
Il prologo sembra avere qualcosa di promettente, nel darci quadri della scena del crimine staticizzati ed esplorati tridimensionalmente dalla camera, ma la conferma che ci si è sbagliati arriva quando Glass-Donnelly (anche co-sceneggiatore) decide di mostrarci la dinamica del fatto di sangue, il chi e il come. Introdotta in modo pedestre da un personaggio (quello dello psichiatra a cui Jane viene affidata dopo l'incidente) che si discolpa indicando il vero responsabile, è una sequenza cui O'Donnelly dà spessore nella modalità evidentemente prediletta: quella del rallentare il tutto, fino a tornare ad effetti simili a quelli dell'apertura. Funziona così così, e il ridicolo è dietro l'angolo, prima del momento risolutivo di tutto quanto, che è rapido e poteva essere sfruttato meglio.
Se i boo scares sono soft, l'uso della musica, pesante e onnipresente fino a diventare noioso, dà un deciso contributo negativo all'insieme poco convincente. Il risultato complessivo è spuntato, bolso, con tensione e brividi quantomeno discontinui.
Gli interpeti, piuttosto medi, non aiutano ma non è neppure colpa loro se il film è molle: un horror drammatico, quasi per signore, che la dignità di horror la raggiunge ma è molto probabile che scontenti l'appassionato. E conferma in chi scrive i dubbi su un atteggiamento diffuso tra i seguaci dei generi: cosa è peggio, cosa vale più la pena di vedere tra un film che costeggia un genere pur non sentendo il bisogno di metterci mani e piedi, e un film come questo che è di genere ma poco riuscito?
A.V.

Il trailer: https://www.youtube.com/watch?v=-_ltn43Bx9A

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 34 TORINO FILM FESTIVAL. PORTO

Francia/Polonia/Portogallo/Usa 2016. Di Gabe Klinger.

Jake e Mati, in quel di Porto, vivono una storia d'amore che dura l'arco di una notte. Lei accetta l'approcciarsi di lui in un locale e un feeling, un'attrazione tra i due emergono subito. Lui l'aiuta a portare scatole nel suo nuovo appartamento, in cui scatta il sesso. A cui segue un livello di conoscenza con il dialogo oltre che biblico, e una tenerezza malinconica prima di finire col riposarsi a nuovo giorno già iniziato. Lei, però, è già ufficialmente impegnata, con un uomo più maturo e soprattutto quel che stiamo vedendo appartiene già al passato. In questa relazione dopo la quale è lui soprattutto a esserci “rimasto sotto”, come si suol dire, lo star bene insieme per i due è stata una magnifica parentesi, da ricordare, sullo sfondo di una città.
La struttura con cui il film racconta questo brevissimo rapporto di amore e sesso è originale. Suddiviso in tre pseudo-capitoli, Porto va avanti e indietro, seguendo meglio un personaggio e poi l'altro, ritornando su alcuni passaggi, ampliandoli e fermandosi poi su altri non ancora visti (la cena, che sembrerebbe un primo appuntamento invece scopriamo essere avvenuta di notte, già dopo l'esplodere della passione).
La passione scoppia improvvisa, con un'impellenza da cinema (e complice un piede di lei: feticisti alert), e tra incredulità e piacere lui e lei mettono assieme tre amplessi quasi di fila (in barba a quel che si chiama periodo refrattario). Dopo aver preso questa piega erotico-cerebrale, il film ne prende una poetica, e mostra ancora più il fianco. Seduti su una panchina, i protagonisti filosofeggiano, ma lì rischiano di perdere lo spettatore, nella ricerca di qualcosa di serio da dire sull'esperienza e le emozioni vissute.
Tutto questo è “cinematografato” con un'estetica slow dovuta al ricorso non solo alla pellicola, che con la sua grana contribuisce all'aura “intima” del film, ma anche a formati diversi, perché oltre al tradizionale 35mm abbiamo brevi passaggi a 8 e 16mm.
Lucie Lucas, bella e abbastanza brava, sfoggia nelle scene erotiche un nudo scultoreo. Purtroppo chi scrive non è riuscito, a differenza di un po' tutti a quanto pare, a gradire la performance di Anton Yelchin. L'attore tragicamente scomparso, a cui il film è dedicato (ma ne ha tre ancora in arrivo), attraversa l'intero film sulla stessa tonalità, ma così il suo personaggio sembra francamente un rincoglionito, o come minimo uno in attesa di una pacca che lo distolga dai suoi pensieri. Se è vero che il suo tratto vocale è quellolì, grattato, il modo in cui il personaggio è impostato e la sua fissità non giocano a favore della riuscita del film, anche se vanno nella direzione che evidentemente il regista brasiliano, all'esordio nel lungo di finzione, voleva: una sorta di intensità introversa a dispiegamento lento, o quantomeno modulato, in un mood che conta più delle parole che vengono dette e cui concorrono anche le note di piano in colonna sonora.
Un tempo felice, da assaporare e che sarebbe da fermare (anche perché il “dopo” non lo è, tra lui che si abbassa a un gesto violento e lei che non ha azzeccato il nuovo legame); due protagonisti che condividono un'esperienza percepita come strana ma impossibile da evitare, qualcosa che doveva succedere (come da parole di lui). Un dolce e malinconico tributo al bello inatteso che la vita può aprire davanti, per poi richiudere: quello che Porto ha da dire arriva, convincendo però parzialmente.
Produce Jim Jarmusch.
A.V.

Il trailer: https://www.youtube.com/watch?v=CIVBl-v0TSk

domenica 9 dicembre 2012

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 30 TORINO FILM FESTIVAL. V/H/S


USA 2012. Di Adam Wingard, David Bruckner, Ti West, Glenn McQuaid, Joe Swanberg, Radio Silence.
Chi si rivede, l'horror a episodi. Non è l'unico nell'aria attualmente: The ABC's of Death, P.O.E. Project of Evil.... Peccato che la cosa migliore di questo V/H/S rischia di essere il manifesto, con le coste delle videocassette che formano un teschio.
La cornice è costituita dalle immagini di alcuni tizi che entrano in una casa per sottrarre una vhs. La casa è vuota, a parte un ciccione morto su una poltrona con davanti una tv accesa e svariati nastri. Qualcuno viene mandato in play e così noi vediamo i vari episodi. Il film inizia e dopo i primi minuti ci si mal dispone e ci si chiede: sarà tutto così? E' il trionfo di un cinema che se ne frega dell'estetica, con una camera a mano mai ferma, riprese sgraziate, effetti video e repentini salti spaziotemporali. Per fortuna no, non è proprio tutto così: il secondo episodio, per esempio, è girato in modo molto più pulito.
Il primo episodio, in pov con l'espediente di essere ripreso dagli occhiali-camera di un personaggio, vede alcuni ragazzi andare in discoteca e rimorchiare alcune pulzelle. Una di queste ha palesemente dei problemi, dato che si limita a ripetere “I like you” sgranando gli occhi. I maschi se le portano in appartamento per cercare di concludere, ma, sorpresa, la stramba si trasforma in un mostro assassino. Forse la cosa più affascinante è il finale su cui repentinamente si chiude.
Il secondo vede una coppia in viaggio in luna di miele tallonata da una figura femminile che di notte si introduce pure in camera loro (sequenza che, di per sé, funziona). C'è del potenziale -l'intruso mette in crisi sicurezza e fiducia della coppia- ma tempo di ipotizzarlo e il segmento si chiude con un colpo di scena brutale.
Il terzo mostra un gruppo di ragazzi che, in gita al laghetto fra le frasche, sono destinati a cadere sotto i colpi dell'assassino che notoriamente infesta il luogo, una presenza umana ubiqua e visualizzata come una sorta di rumorosa mandria di pixel, come fosse un difetto del sistema. Non esaltante, con uno sventramento che, come di prammatica, include l'estirpamento di un po' di intestino (non sarebbe ora di cambiare organo?).
Il quarto è forse il migliore e si distingue un po', anche se più per la concezione che per i risultati. Via webcam, una ragazza informa un amico-potenziale amante della presenza infantile che si manifesta talora in casa sua. E che, senza spoilerare, non compare per caso, così come lui non la sta conttattando casualmente. L'episodio è considerabile come una lettura di genere che cerca di infondere inquietudine in una pratica di oggi, come le comunicazioni via webcam.
L'ultimo episodio mostra alcuni ragazzi (cresciuti) recarsi ad una festa in una villa che (again) sembra vuota ma non solo cela persone intente in un rituale, ma si rivela pure “stregata”, in un crescendo caotico. E' il segmento meno violento, con elementi horror vecchio stile, che la butta sul paranormale ma il tutto, buttato così e con quella tecnica, non funziona granché.
Lasciando stare questioni di credibilità e di linguaggio (il riversamento su nastro di certe cose è espediente che va accettato come improbabile ed è chiaro che dev'esserci un'entità superiore che unisce tutto per darcelo come film), in definitiva V/H/S fa fatica ad incidere anche se qua e là può dare brividi -ma man mano, calando l'interesse, calano anch'essi-. A volte si ha l'impressione di assistere al dispiegarsi di pratiche di genere che, tra apparizioni e arti spezzati, diventa ripetitività, quando non prevedibilità (cosa succederà mai ai tizi nella cornice narrativa?); non sembra mostrare un buono stato di salute del genere e (per quanto può valere) non farà cambiare idea a chi non lo apprezza. Da un lato non ha molto da dire, dall'altro, a volte, quando ce l'ha, lo accenna soltanto. Ed è disseminato di personaggi iperparolacciari e giovani cazzoni che fanno un po' rimpiangere, rimanendo alle visioni festivaliere, l'horror adulto del Rob Zombie di The Lords of Salem.
A.V.
Il trailer: http://www.youtube.com/watch?v=axravRclWqk

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 30 TORINO FILM FESTIVAL. FIN


Spagna 2012. Di Jorge Torregrossa.
Un gruppo di amici si ritrova dopo anni per una permanenza insieme in una baita. La notte, l'elettricità scompare, le auto non partono, i cellulari non parliamone. Isolati, il giorno dopo si spostano, ma non trovano altre presenze umane. Solo, occasionalmente, animali. Il problema che si pone ai personaggi non è il come sopravvivere, ma la progressiva, sistematica, misteriosa scomparsa nel nulla di componenti del gruppo. Questo mentre sotto la superficie di una agognata reimpatriata sono affiorate menzogne, solitudini, insofferenze, e soprattutto un segreto del passato legato ad un loro amico un po' ripudiato che ora è apparentemente assente ma aveva previsto tutto. Infatti, ha predetto e disegnato questa fine del mondo vista proprio dai protagonisti.
Film apocalittico dal trattamento drammatico, con giusto un paio di effetti speciali (o quasi), Fin vuole focalizzarsi sui suoi personaggi, posti in una situazione estrema ed, appunto, terminale. Come se l'apocalisse fosse l'enorme correlativo oggettivo di ciò che intercorre tra essi, come se l'infelicità, l'insicerità li portasse a spegnersi. In tal senso, è paradossale chi si salverà (forse), chi il film ritiene meritevole di continuare, essendo anch'essi personaggi che abbiamo scoperto condurre una messinscena. Però belli, giovani (più o meno) e non antipatici, se non altro.
Il problema è che una volta che si capisce l'antifona, ovvero che i nostri amici svaniranno uno alla volta, il film non riesce ad aggiungere qualcosa di davvero significativo. E scorre abbastanza piano, includendo quasi alla fine una scena inaspettata che però non sposta in su il risultato. Dopo di essa, nei dialoghi, un tentativo di filosofeggiare sulla vita (esistiamo solo per chi ci guarda e chi ci vuole bene, dice un personaggio. Viviamo e scompariamo, quel che conta è il mentre, sostiene l'altro). E' un film fatto di poco, come si suol dire, ma senza che questo si traduca in caratteristica positiva. Provaci ancora, Torregrossa (che comunque è riuscito a farsi distribuire dalla Sony spagnola). O forse no, boh.
A.V.
Il trailer: http://www.youtube.com/watch?v=rnzJGepWXi0

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 30 TORINO FILM FESTIVAL. MANIAC


USA/Francia 2012. Di Franck Khalfoun.
Il giovane Frank (Elijah Wood: altro che Frodo) è un assassino di donne: dopo averle tampinate, usa far loro lo scalpo per appiccicarlo ad alcuni manichini provienenti dal suo negozio, componendo un harem fittizio e odorante morte che talora immagina composto da persone vere. Nel suo passato, come prevedibile, una madre indegna, pippatrice e donna facile. Nella sua vita compare una bella fotografa, Anna, interessata a usare i suoi manichini (quelli “sani”). I due iniziano a frequentarsi, mentre lui prova qualcosa per lei, la sente e vede diversamente dalle altre, non ennesima vittima ma donna decisiva. Inutile dire che non potrà accadere nulla di idilliaco tra i due e le cose precipiteranno.
Maniac era un film atteso e temuto dai seguaci del genere, per il suo essere remake di un cult “underground” del 1980 dallo stesso titolo -e il cui regista, William Lustig, figura qui tra i produttori- e per la scelta dell'attore protagonista con la sua faccia e aria un po' imberbe, ma che supera l'esame con piena sufficienza.
Il film fa una scelta di messinscena forte e pseudo-rigorosa: il nostro punto di vista è quello del protagonista, in soggettiva. Una soggettiva che qualche volta si rompe, per motivi di chiarezza o per scelte estetiche, di chiusura di sequenze. Ad esempio, l'inquadratura su Frank dopo l'omicidio della ballerina e più avanti, analogamente, durante quello della signora, lui che si ripensa insieme ad Anna in riva al laghetto, lui ragazzino che guarda la madre in vena di lascività. In questa modalità di regia, l'inquadratura più buffa arriva quando Frank si sciacqua il viso, gettando dell'acqua in camera. E' un film abbastanza forte anche grazie al suo essere in pov, ma non un incubo senza fine per chi guarda. Ciò che fa respirare di più lo spettatore è infatti la linea narrativa con la presenza di Anna, l'ipotetica salvatrice dell'assassino a cui chiaramente è concesso più spazio delle altre donne del film. D'impatto l'inizio e buona la concitata lotta a casa di Anna. Difetti (non grossi) che si possono imputare al film sono qualche sottolineatura di troppo (i già citati flashback dei due, il manichino di Frank bambino) ed accumuli horror (il tizio che improbabilmente si rialza dopo una mannaiata, l'incidente).
Conclusione, in un climax malato, con una sequenza di allucinazione gore. Curata la scelta dei brani in colonna sonora, anche se ormai si fa prima a notare un film in cui non lo sia.
A.V.
Il trailer: http://www.youtube.com/watch?v=BPdzB1oGifw

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 30 TORINO FILM FESTIVAL. PAVILION


Usa 2012. Di Tim Sutton.
Premio speciale della giuria (ex-aequo con Noi non siamo come James Bond), Pavilion è un film che lascia masticanti un po' di amaro. Perché da un lato è più o meno quello che si poteva ipotizzare essere, dall'altro... poteva pure essere meglio. Sullo schermo, le giornate estive di alcuni adolescenti, tra biciclettate, skatate e camminate nei boschi, osservati da un punto di vista registico molto laterale rispetto a quanto va in scena, con una trama assai lassa. Si sarà intuito che siamo dalle parti di alcuni film di Gus Van Sant, da cui “Pavilion” è molto derivativo. Se vi sono piaciuti Elephant o Paranoid Park (che comunque sono film con un altro mordente), è pane per i vostri denti, o perlomeno vi troverete bene durante la visione; altrimenti si rischia di odiarlo.
Alcune inquadrature sono belle, e il film ad un certo punto sembra creare una qualche atmosfera da “estate come periodo magico e irripetibile-libertà dell'essere giovani-fase che si chiude”. Come suggerirebbe la linea narrativa del ragazzo che si trasferisce, e che però nell'ultima parte è agilmente sostituito da un altro. I personaggi infatti non sono approfonditi, consapevolmente e sono trattati un po' come un mucchio. Sono mostrati in quello che fanno, in gruppo o in momenti di solitudine, agganciandosi alla loro quotidianità, senza una storia forte che li muova. La musica è parca, con un bel motivo sognante che torna ogni tanto. Però poi il film finisce, dopo un'ora e dieci circa e un certo senso di insoddisfazione c'è. Oltre che, a conti fatti, un sospetto di furbizia nell'aver trattato certi temi con un certo stile, per un cinema che sfoggia immagini insolite e può suscitare consenso e meraviglia, ma facendo troppo riferimento a un padre nobile che su queste cose ha già dato e meglio.
A.V.
Il trailer: http://www.youtube.com/watch?v=e2glgEVIB9M

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 30 TORINO FILM FESTIVAL. A LIAR'S AUTOBIOGRAPHY-THE UNTRUE STORY OF MONTY PYTHON'S GRAHAM CHAPMAN 3D


UK 2012. Di Bill Jones, Jeff Simpson, Ben Timlett.
Come avrebbe voluto essere ricordato Graham Chapman, componente dei Monty Python scomparso nel 1989? Senza riverenze e senza buon gusto, come sostenuto alla sua commemorazione funebre, di cui sono mostrate alcune immagini sui titoli di coda.
Scritto e diretto da tre registi che hanno coordinato il lavoro di differenti studi di animazione, è stato una delle visioni più ilari del festival. La storia “non vera” di Chapman è ispirata alla sua autobiografia ed è assolutamente non convenzionale e non facile da riassumere, dato il suo mescolare fantasie ed elementi di realtà in modo dissacrante, compresi vertiginosi (anche letteralmente: si prende e si va in cielo) passaggi tra “realtà” e immaginazione all'interno di questa pseudo realtà. Un elemento isolabile è l'omosessualità di Chapman, il suo coming out e la relazione duratura con un uomo. Il suo viaggio personale nella sessualità prima della presa di coscienza di essere gay è visualizzato come un viaggio a bordo di una vetturina a forma di genitali maschili su rotaie.
Il tutto è raccontato con diversi stili animati, a cominciare dalle figure bidimensionali con sopra le vere teste dei Monty Python, proseguendo con pupazzotti 3D, giungendo a una buona sequenza di incubo (relativa alla disintossicazione dall'alcool) con i tratti che riempiono le figure che si muovono incessanti. Nel complesso, è un melange che tiene e i cambi si notano realmente giusto all'inizio.
Premesso che chi scrive conosce poco i Python, l'impressione è di un film non rivolto necessariamente ai fans (sebbene si sia riconosciuta almeno una strizzata d'occhio lampo: un barattolo di carne Spam), ma forse a chi ha un sense of humour sbrigliato. La disinibizione la fa da padrona, tra sesso e riferimenti all'eiaculazione. Ed è un'ora e mezza di montagne russe, in cui la genialità si alterna a passaggi più a vuoto. Programmaticamente sovraccarico (in modo non così difforme da certa animazione mainstream), caotico, qualche volta insulso (le scimmie?) e pesante (la canzoncina finale che fa un elenco di tutte le malattie più repulsive). Lucidamente è difficile dirne male, ma è bene riconoscerne i limiti.
Cameron Diaz dà la voce a Sigmund Freud, protagonista di una parentesi, con un inglese molto accentato. La voce di Chapman, invece, è stata elaborata da nastri da lui registrati.
A.V.
Il trailer: http://www.youtube.com/watch?v=dbW842eMNtI

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 30 TORINO FILM FESTIVAL. NOI NON SIAMO COME JAMES BOND


Italia 2012. Di Mario Balsamo. 
Mario Balsamo e Guido Gabrielli sono due amici di lunga data. Rievocano una loro vacanza, ripercorrono tappe del loro passato. Scambiano riflessioni, parlano di loro. E soprattutto di malattia. Perché Guido è sopravvissuto a una leucemia che lo ha cambiato e visibilmente smagrito, mentre Mario è stato operato per un tumore ad una gamba che gli dà ancora delle conseguenze. Lo spunto è la riflessione che dà il titolo al film: se Bond rappresenta la vita “come dovrebbe essere”, loro due, tra guai con la salute e un numero di donne limitato, ne sono agli antipodi. E Mario pensa sia il caso di chiederne conto proprio a Sean Connery, che prova a rintracciare al telefono, nella sua residenza alle Bahamas, lungo il film.
Vincitore del premio speciale della giuria (ex-aequo con Pavilion), Noi non siamo come James Bond è un documentario-autoanalisi e la storia di un'amicizia, ed include un inaspettato passaggio di metacinema, quando i due rivedono il film fino a dove si è arrivati e Guido si arrabbia perché la camera è rimasta accesa anche quando aveva chiesto che non lo fosse. “Ma è vita...”, risponde l'amico.
Se magari le premesse non sono delle più invitanti e il risultato potrà comunque essere odiato a morte da chi giudica i film italiani col metro del “può piacere/non può piacere all'estero”, il film non ci mette molto a stabilire una certa confidenza con lo spettatore. Perché la naturalezza, la sincerità con cui i due si mettono di fronte alla macchina da presa, un profondo senso di umanità, sono palpabili. Si avverte l'affetto di Mario verso Guido, persona che dice cose intelligenti anche se, in quanto personali, non sempre immediate, mentre è fatta capire la singletudine di Mario.
Scontata, comunque, la riflessione che sorge dopo l'attesa telefonata a Connery, che liquida fermo e gentile: anche i miti nascondono persone che invecchiano. In compenso, i due pranzano con Daniela Bianchi (che si presenta ancora bene) in carne e ossa. Non è grande cinema, ma qualcosa dentro la trasmette, in mezzo ai (e con i) sorrisi.
A.V.
Il trailer: http://www.youtube.com/watch?v=MkkbfRlwcTI

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 30 TORINO FILM FESTIVAL. CRAZY & THIEF


Usa 2011.
Crazy e Thief sono i nomi fittizi di una bambina sui 7 anni e del suo fratello più piccolo, sui 2 (opportunamente sottotitolato). In giro per la città, in libertà, seguono una presunta carta celeste cercando ogni tipo di raffigurazione di stella. Incontrano un ragazzo con un occhio solo ed un uomo che tenta invano di farli riportare a casa. Ma i due pensano di avere ancora qualcosa da compiere: cercare una macchina del tempo, con sopra la stella di Betlemme... che poi è Bethlehem, in Pennsylvania.
Presentato nella sezione Onde, Crazy & Thief è diretto da Cory McAbee, che fa “recitare” i due figli (non per la prima volta) e firma anche la colonna sonora -bella, grintosa- col suo gruppo The Billy Nayer Show. E' un lavoro che suscita qualche tenerezza ma risulta meglio a raccontarlo, o meglio a ricordarlo, che non a vederlo. Strutturato in capitoletti con titoli dai riferimenti talora “epici” (come "Ciclope"), ci mostra la fantasiosa libera uscita di due infanti che si muovono in un mondo adulto, senza che quasi nessun adulto gliene chieda conto né altre figure umane entrino in ballo, esplorandolo e interpretandolo tutto a modo loro. Parafrasando il regista, si tratta di un percorso di ricerca impossibile e di scoperta basato su informazioni parziali o errate, come è accaduto nella storia e come, appunto, accade nell'infanzia. I tempi morti e le ripetizioni fanno parte del gioco, per tenere un approccio non da cinema tradizionale, così come una camera sgraziata, che va fuori fuoco.
Ma le premesse, pur trattandosi di un lungo gioco infantile, sono un po' astruse e pretestuose e la tenuta del tutto è un po' labile. Il film è parzialmente improvvisato e si sente talora la mano di qualcuno che guidi questi bambini nel succedersi delle cose che fanno: inevitabile forse, ma non funziona perfettamente, anche se i due bambini sono indubbiamente simpatici, specie lei.
A.V.
Il trailer: http://www.youtube.com/watch?v=aFYB5hKzKV8