domenica 9 dicembre 2018

Festival ed eventi vari. 36 TORINO FILM FESTIVAL. THE FRONT RUNNER


Usa 2018. Di Ivan Reitman. Al cinema dal 21 febbraio 2019 ("The Front Runner-Il vizio del potere".

Lunga tre mesi (e un prologo), la vera storia della debacle politica di Gary Hart, senatore democratico candidato alla presidenza Usa nel 1988, dopo un tentativo fallito nel 1984. Volenteroso, benintenzionato, Hart ha chances ma commette l'errore di intraprendere una relazione adulterina con una ragazza, Donna Rice - il passaggio incriminato del loro incontro, e il loro rapporto, sono lasciati fuori dalla narrazione: nel primo caso, Hart la nota, la segue... poi vediamo solo lo yacht su cui si trovano in compagnia, da lontano. Eppure è il momento chiave: niente male - . Una volta scoperta, la pressione mediatica lo condurrà verso la rinuncia alla carica.
Aperto da un lungo piano sequenza, con la camera che va avanti e indietro tra folla e giornalisti fuori dall'albergo di Hart nel momento della sua prima sconfitta, The Front Runner (con l'ameno doppio senso esplicativo del nostro sottotitolo) ha per personaggio principale un uomo ingenuo e idealista nella visione della politica, e anche della gente, da lui rispettata al punto di pensare che la cosa pubblica non venga più seguita a causa dell'interesse pettegolo per il privato. Dovrà rendersi conto con fastidio e fatica che non vive in una bolla, perché nel bene e nel male la politica è fatto collettivo.
Il fatto che Hart-Jackman dopo essersi fatto pescare resti per un bel po' in disparte dà peso agli altri personaggi e attori - di un buon cast - : da J. K. Simmons come Bill Dixon, capo dell'entourage, al giornalista nero (Bill Martin) col quale Hart litiga, non riuscendo a contenere la sua mancata sopportazione della curiosità gossip, e di cui poi diventa quasi amico. Ecco, in un film americano di oggi, le pressioni culturali contemporanee spingono a guardare con attenzione al lato politicamente corretto e femminista: se pesa, cosa viene detto, se sembra un pegno ai tempi. Qui il personaggio black ha un rilievo in tal senso sospetto, tuttavia è abbastanza solido. Donna pronuncia una buona battuta, rivolta a Dixon a scandalo scoppiato, spiegandogli cosa sta facendo nella vita: più o meno, “Ho fatto di tutto per evitare di essere guardata come mi sta guardando adesso”. Il (breve) rapporto di questa donna dello scandalo con una ragazza dello staff del senatore, Irene, vede la prima aprirsi, e Irene è quella che con lei empatizza di più (pur “rosicando” sentendosi meno attraente), infatti poi proverà a chiedere di lasciarla fuori ai colleghi: proposta malamente respinta. C'è un momento di messaggio morale esplicito per bocca di una donna, quando in redazione Martin, chiedendo a una collega come mai sia così acida quando si parla di Hart, gli risponde ferma: pazienza fosse un broker qualunque, ma dal presidente ci si aspetta un comportamento serio. Ma niente di grave: non si sta parlando dei didascalismi del pur superiore The Post.
Hart però resta un personaggio non antipatico, che si chiede cosa è diventata e diventerà la politica, con la ricerca mediatica dei personalismi. Questioni, domande poste chiaramente, compresa un'immagine finale in cui convivono, in tono dimesso, dimensione pubblica e privata. Se all'inizio il rimpallo di battute tra membri dello staff potrebbe far pensare a un film diverso da quello in arrivo, The Front Runner è comunque cinema americano godibile e vispo, che nell'intrattenere inietta una componente “impegnata” la quale, sebbene non espressa con perifrasi, merita una riflessione per la sua valenza (anche) attuale.
Alessio Vacchi


Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=BAOYDcnVx6E

Festival ed eventi vari. 36 TORINO FILM FESTIVAL. WILDLIFE


Usa 2018.

Montana, 1960. Joe, adolescente, vive con padre (Jake Gyllenhaal) e madre (Carey Mulligan). Quando lui perde un umile lavoro presso un club golfistico, dopo un periodo in cui si chiude in sé sceglie di unirsi a chi va verso le foreste per la rischiosa mansione di badare agli incendi in corso. Lei non approva, e una volta partito il consorte, compie manovre per un camiamento personale da una vita di casalinga che sta stretta: rinnovata in modi e vestiario, gira intorno a un uomo più anziano e danaroso. E Joe sta a guardare questi cambiamenti nel debole equilibrio familiare.
Esordio alla regia dell'attore Paul Dano, che lo scrive con Zoe Kazan a partire da un romanzo di Richard Ford, il film ha vinto questa edizione del festival. Meritatamente. Facendo praticamente a meno della colonna sonora (Jóhannsson è accreditato per una composizione), Dano opta per una regia accurata e di pittorica fermezza per come mette le figure umane dentro il quadro, e come le tiene, perché gli attori si muovono poco in scena. Complice la tavolozza cromatica della fotografia, l'effetto complessivo è un look vagamente retrò; ma se il film è ambientato nel passato, non stiamo però parlando di un'ingessata ricostruzione d'epoca. Se dice qualcosa dell'America, lo dice nella tensione della protagonista femminile in quegli anni lì verso una vita più libera - col rischio consapevole di compiere una scelta sbagliata lasciando da parte i sentimenti - e la ricerca di una felicità non chiusa in una classica casetta: di contesto in scena ce n'è poco.
Wildlife è soprattutto la storia di una crisi genitoriale attraverso il punto di vista di Joe: che vero protagonista non è, ma è l'osservatore sempre perplesso e preoccupato di questa vicenda che lo riguarda e che subisce, colui con il quale ci si identifica. Con lui condividiamo il disagio di vedere una persona amata cambiare in una direzione che la porta fuori dall'orbita nota e familiare (in entrambi i sensi), di osservare cose cui non vorrebbe assistere. In tal senso è molto buona tutta la sequenza della cena “galante” e di quel che segue. Anche se, pur trattato come un adulto, fino quasi alla fine emette però soltanto risposte o domande banali, timide, raramente tentando di opporsi a quanto succede. E anche se è interpretato come un bamboccio, sempre a bocca leggermente aperta.
La mano è marcatamente trattenuta, ma partecipe; se non si conoscesse l'origine letteraria se ne sospetterebbe un'ispirazione autobiografica (Dano in ogni caso è classe 1984). Al momento, non è prevista un'uscita italiana.
A.V.

Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=OoJpVQTY_t4

Festival ed eventi vari. 36 TORINO FILM FESTIVAL. THE GUILTY


Tit. or.: Den skyldige. Danimarca 2018. Di Gustav Möller.

È una sera di lavoro per l'agente Asger Holm, momentaneamente confinato alla centrale operativa, microfono sul capo e terminali davanti. Il giorno seguente, apprendiamo, dovrà presentarsi in tribunale per un caso che lo riguarda. Ad un certo punto riceve la chiamata di una donna: pare essere su un veicolo, insieme a lei c'è il suo rapitore e a casa ha lasciato due bambini. Cercando di ottenere informazioni, tra una chiamata e l'altra (e facendosi aiutare anche da un collega che pare un po' succube), Asger cerca di gestire con attenzione il caso, che si rivelerà spinoso e in un certo senso lo riguarda.
The Guilty è una delle maggiori soddisfazioni “di genere” dell'edizione 36: di genere ma sui generis, perché trattasi di un thriller “high-concept”, con un protagonista in scena dall'inizio alla fine (quasi ininfluenti i colleghi), tutto in due stanze e con gli esterni, e i contributi degli altri attori, soltanto in audio. Alla domanda più banale, se regge, se ha tensione – con un pizzico di humour nella prima parte – , la risposta è: sicuramente sì, tiene molto bene per la sua ora e venti circa, e ciò vuol dire tanto di cappello alla sceneggiatura (firmata dal regista con Emil Nygaard Albertsen), asse portante di un lungometraggio concepito in questo modo. A voler leggere il tutto in modo un po' più teorico, alla luce dei clamorosi colpi di scena (inevitabili per non rendere il tutto teso sì ma più liscio; e benvenuti, perché sebbene qualcosina non sia imprevedibile non importa, fanno venire i brividi), e di cosa veniamo a sapere del protagonista, quello che va in scena è lo scacco di una realtà che va per suo conto, brutale, crudele, triste, alla nostra capacità di comprenderla e di intervenirvi, messo in scena attraverso il volto di un uomo (Jakob Cedergren, che in una performance impegnativa non strafà) che pure abbiamo sempre davanti agli occhi, ma di cui fino a un certo punto non sappiamo abbastanza, e che si illude, ma noi con lui, di star capendo quanto accade mentre vi è collegato. Un uomo che ha sbagliato, che sbaglia ancora, e cercherà, e deciderà, di fare ammenda: a un certo punto lo vediamo, in un momento critico, illuminato da un rosso che (sebbene la luce in scena sia giustificata) si è tentati di leggere come un rimando infernale. Come se il suo, il nostro inferno di impotenti fosse qui. E anche “lì”, in un luogo dove si cerca di tenere il controllo su una fettina di mondo. Anche se, sebbene a danni parzialmente fatti, in tal senso il film offre uno spiraglio di speranza.
Finito questo ricamo di parole con cautela per gli spoiler, resta da segnalare il raccolto del fim al festival: miglior sceneggiatura e premi ex-aequo del pubblico e per il miglior protagonista maschile, ma anche una menzione per uno dei premi collaterali, “Gli occhiali di Gandhi”, con motivazioni quali l'uso del dialogo come strumento di catarsi nella risoluzione di un conflitto e la mancanza di violenza messa in scena.
A.V.

Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=abaoKA6rn5k

Festival ed eventi vari. 36 TORINO FILM FESTIVAL. L'AMOUR DEBOUT


Francia 2018. Di Michaël Dacheux.

Léa e Martin, giovani e più o meno carini, stanno vivendo a Parigi e sono stati insieme. Lei fa la guida turistica, lui trova un nuovo posto in cui stare nell'appartamento di un ex compagno di studi, vorrebbe fare il regista, scrive un copione e tiene corsi di programmazione cinematografica. Per entrambi ci sarà una svolta sul piano sentimentale, più o meno temporanea: lei si infatua di un solitario signore agée che vive su una barca, a lui che è bisessuale succederà qualcosa col coinquilino Bastien. Léa e Martin si rincontreranno, ma intanto la vita va.
Scritto dal regista, dotato di una fotografia molto chiara e rassicurante (anche se non super-cinematografica), è un film di vite in assestamento, di naturale ricerca - e relative illusioni - di qualcosa di appagante, scandito in stagioni: e qui è difficile non pensare a Rohmer, ma il modo in cui il film lo ha fatto venire in mente a chi scrive - cinemagay.it rileva anche rimandi a Paul Vecchiali, a cominciare dalla presenza di Pascal Cervo e François Lebrun - va chiarito. Se la città di Parigi è quasi un personaggio, ed è coinvolta in un modo che più diretto non sarebbe possibile – attraverso le spiegazioni di una Léa che ne sembra soddisfatta – , il disegno dei suoi film (quelli del ciclo dei “Racconti delle quattro stagioni” e “Commedie e proverbi”, si intende), quell'intrecciarsi dei personaggi, il dialogo, insomma le caratteristiche che hanno fatto amare il regista qui sono lontane. E le si rimpiange. Perché quel che invece c'è è tenue. Poteva venir sostenuto un po' meglio da una recitazione più fresca, che invece è leggermente artificiosa (Adèle Csech-Léa, la sua inquilina hostess), o da personaggi più approfonditi e in cui si potesse 'entrare' di più. Non è andata così, e anche se il film sembra non porsi particolari problemi, confidando in modo tranquillo sulla sua “francesità”, il risultato è che a volte si pensa ai fatti propri, mentre sullo schermo passano le tranches de vie dei personaggi.
Il motivo della selezione a un certo punto diventa chiaro (sebbene il film sia già approdato a vari festival, Cannes compreso): l'esplicito omaggione a Jean Eustache, protagonista di una delle retrospettive di quest'anno, attraverso una Bernadette Lafont nella parte di sé stessa. La vediamo per la prima volta a una proiezione di La mamain et la putain, e poi condividere alcuni momenti coi personaggi, da amica. Ma la cinefilia non basta né coinvolge, né è in qualche modo elaborata. Un'operina, non antipatica ma trascurabile.
A.V.

Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=MtP0bY7WdE4

Festival ed eventi vari. 36 TORINO FILM FESTIVAL. TYREL


Usa 2018.

Tyler (Jason Mitchell) si reca con altri a passare alcuni giorni di “drunken bro debauchery” (cit. Imdb) in uno chalet di montagna. Alcuni li conosce, altri no, altri si aggregheranno. Ma il fatto che sia l'unico nero e un pesante clima goliardico inizieranno presto a farlo sentire non a suo agio.
Scritto e diretto da Sebastián Silva (che si era fatto conoscere con La nana, passato al TFF come il più recente Nasty Baby), Tyrel è un film che va affrontato con precauzioni e pazienza. Sì, c'è una situazione di base con un uomo nero "in balia" di bianchi, ma se approcciato come “il nuovo Get Out” (come da sinossi sul programma) il film non corrisponde alle aspettative e non può soddisfare. Perché vi si aspetta vanamente che succeda qualcosa di eclatante o di esplosivo: non accade nulla che paia irreparabile, il crescendo è smorzato mentre Silva ci immerge nel turbine di parole, divertimento alcolico ed eccessi di questa mandria di uomini, perlopiù neanche particolarmente simpatici.
Non tutto quanto accade a Tyler-Tyrel è motivato dal suo essere nero, non viene vessato per questo da personaggi deliberatamente razzisti: è la molla che lascia un primo segno, ma è agevole (se non si è disperatamente estroversi) immedesimarsi nel protagonista col suo sentirsi fuori posto (sì, al pari di quella lettera scambiata che porta qualcuno a chiamarlo così) in mezzo ad altri e il suo cercare di adattarsi, anche illudendosi di trovare in qualcuno una maggiore complicità.
È del tutto comprensibile il volere qualcosa, se non di differente, di più, e lungo il suo svolgimento ci si può domandare “e quindi?”, ma in fin dei conti un film interessante c'è, che si segue attivando la curiosità, cui va dato atto di una regia efficacemente immersiva (è un po' come fossimo Tyler, è un po' come fossimo lì) e che lascia con simpatia, complice un finalissimo che è un'efficace chiosa ironica. Tyrel è un lungometraggio sottile, di relazioni, di tensioni non espresse (almeno non subito, non in modo diretto) e soprattutto di disagio, sotto il chiasso degli altri. Non si capisce, comunque, il motivo dell'inserimento nella sezione di genere e de-genere “After Hours”. In colonna sonora un paio di pezzi storici dei R. E. M. (Stand, cantata dai personaggi, e Losing My Religion).
A.V.


Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=QQiSXQdfQBM

Festival ed eventi vari. 36 TORINO FILM FESTIVAL. L'ULTIMA NOTTE


Italia 2018. Di Francesco Barozzi.

Bea, a causa dei sensi di colpa e della voglia di tornare su un passato drammatico rimasto in sospeso, torna da fratello – Franco – e sorella – Emo – , che sono rimasti a vivere insieme in una cascina. Il clima è cupo, Franco le è ostile, il rapporto tra lui ed Emo non pare sano: la causa sta in fatti familiari traumatici risalenti alla loro infanzia. Mentre la verità ritorna fuori, Bea cerca di intervenire nella vita degli altri due: e mal ne incoglierà a diverse persone.
Accompagnato dall'inevitabile (?) riferimento ad ambientazioni e atmosfere “avatiane”, il film tiene sulla sedia per via della storia morbosa – basata su un vero fatto di cronaca di qualche anno fa – , ma ha pochi altri pregi – forse la secchezza e suspance del finale, quando esplode il bodycount – , e sconta una ingenuità di confezione che lo limita in modo deciso. La recitazione, non più che sufficiente (anche se gli attori, come tipi fisici, sono ben scelti), è tutta sul sussurrato: va bene che non regna un clima allegro e ci sono di mezzo segreti di famiglia, ma non era necessario. La fotografia è scontatamente livida, raffreddata in postproduzione in modo programmatico e monotono, come a voler dare una linea estetica che imposti e rinforzi un clima “scuro”. Ma soprattutto, peccato collegato e maggiore, un uso delle musiche che come si suol dire grida vendetta, stancante e “for dummies”: che stiamo vedendo una brutta storia è chiaro, ma perché inzupparla di musica da thriller-horror dall'inizio alla fine, a ogni benedetta scena, tra colpi di tamburello e soluzioni più canoniche come svirgolate d'archi, il commento che si interrompe di colpo o che si impenna? L'effetto è un po' frustrante, anche perché crea alcune scene in cui ci aspetta che accada qualcosa, e invece.
Barozzi mette in scena anche qualche vermetto di fulciana memoria, ma si sente la mancanza di un regista più d'esperienza. È anche vero che il film non vuole essere più di quel che è, non mostra altre ambizioni se non quella di mettere in scena una storia malata e tragica (in modo circolare), con una violenza spesso fuori campo ma qualche immagine macabra. Il cartello iniziale però indica già che c'è dell'ingenuità in arrivo, col comunicarci che, a parte i nomi dei coinvolti, il resto è “riportato” (?) fedelmente.
A.V.

Festival ed eventi vari. 36 TORINO FILM FESTIVAL. PITY

Grecia/Polonia 2018. Di Babis Makridis.

Il protagonista di Pity – nel film i personaggi non hanno un nome – è un avvocato che vive immerso in una tristezza e serietà luttuose: la moglie è in un letto d'ospedale, con scarse possibilità di una ripresa. Piange ogni mattina, parla della sua situazione e del suo status di semi-vedovo, viene compatito e “coccolato” (una vicina gli prepara regolarmente una torta) dalle persone con cui viene a contatto, rimprovera il figlio quando lo sente suonare al piano un motivo felice, e si avvicina morbosamente ma educatamente alla vita di una coppia di clienti il cui padre è finito male. Finché succede l'insperato, ma in un certo senso anche il non voluto: la consorte torna. La sua vita dovrebbe svoltare in positivo, ma lui vorrebbe continuare a vivere e stare come prima, a venir visto stare male.
Cosa ci si può attendere da una commedia nera greca contemporanea, con questo soggetto, scritta (insieme al regista) dallo sceneggiatore abituale di Yorgos Lanthimos? Un film così. Non che sia un male, se stile e spirito del cinema di quel regista sono nelle proprie corde. Lo spunto (degno di un double bill con Ride, per il tema della dimensione sociale del lutto) è ottimo, nell'intingere penna e sguardo in parti della nostra psicologia spiacevoli da esporre: quanto ci può piacere essere oggetto di attenzioni pur sfruttando una circostanza tragica. Provare dolore è noto che non faccia stare bene, ma per il protagonista è un'abitudine che è andata a nutrire la sua vita, e le parole altrui un routinario – vediamo situazioni analoghe ripetersi più volte – conforto quotidiano non tanto per quel che prova, ma per la sua identità. Certo, nulla di tutto questo traspare dal suo volto: alcune cose che pensa e non dice, parti del suo piano si può dire, passano attraverso cartelli come pagine di un diario. Ma la recitazione è completamente asciugata dell'espressione emozionale, lui è impassibile dall'inizio alla fine, in un film messo in scena – come preventivabile – attraverso uno stile a essenziali tableaux poco vivants, e una macchina da presa che si muove sporadicamente, il tutto bagnato da irruzioni di musica alta (in tutti i sensi).
Da un certo punto, all'insorgere delle sue difficoltà nel continuare a comportarsi e a essere oggetto dello stesso trattamento di prima, il film si apre ad alcuni momenti di un divertimento che mette un poco a disagio, perché assistiamo allo smantellamento di un modo di vivere di un uomo e delle sue idee chiare e fissate a riguardo. Pity è sicuramente programmatico nella sua veste cinematografica, prima che nel portare il suo assunto e la traiettoria del protagonista (che vuole vivere come in lutto...) a “inevitabili” estreme conseguenze. Un cinema chiuso e spietato, anche se col sorriso; non per tutti i palati, ma abbastanza riuscito nel porci di fronte un personaggio il cui costitutivo dark side parla di noi.
A.V.

Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=Cj-skgdrZ5g