Thailandia/Hong Kong/Usa 2010.
Jean Claude Van Damme è un habitué del Festival di Cannes. Ogni anno, con la sua casa di produzione Rodin Entertainment, presenta le sue ultime fatiche produttive e interpretative nella sale del Mercato del cinema. Quest’anno le attenzioni degli appassionati (tanti) e degli addetti ai lavori (pochi) si sono rivolte verso The Eagle Path, diretto, interpretato, sceneggiato e prodotto dall’attore belga. La premiere si è tenuta in una sala cittadina, lontana dai flash dei paparazzi e dal tappeto rosso. Una cornice insolita ma adatta all’anticonformismo dell’attore e consona alle atmosfere del film. Ma la pellicola, nonostante l’entusiasmo con cui è stata introdotta al pubblico dal suo creatore, si è rivelata una cocente delusione.
The Eagle Path narra le vicende di Frenchy, un tassista francese che lavora a Hong Kong (!), che viene coinvolto da una misteriosa femme fatale in un confuso intrigo che coinvolge le triadi, la mafia russa, un bordello di lusso e i traumi del protagonista che tornano prepotentemente da un passato traumatico. In questo film la trama è secondaria, un pretesto per enfatizzare la psicologia ambigua e contorta del protagonista, attanagliato dal complesso di edipo e quasi autistico nella sua costante attonicità. Van Damme realizza una pellicola indefinibile e indecifrabile, che ambisce a essere opera d’arte quasi wharoliana ma si rivela miseramente povera sia di contenuto che di qualità realizzative. Come regista aveva dato prova di buone capacità di messa in scena nel più che dignitoso La prova, ma con The Eagle Path si perde in sentieri impervi e tortuosi (come il “sentiero dell’aquila” che dà il titolo al film), abbondando in ralenti ingiustificati e in innumerevoli primi piani che dovrebbero enfatizzare i tormenti del personaggio ma finiscono per frantumare la tensione narrativa. I flashback sull’infanzia tormentata del tassista si susseguono senza dare elementi utili a decifrare l’enigmatica trama e risultano stucchevoli e melodrammatici. Anche i coprotagonisti Claudia Bassols e Adam Karst sono poco credibili e sembrano usciti dalle pagine patinate di una rivista di moda. Si rimpiangono le facce patibolari di tanti comprimari che hanno affiancato l’attore nelle sue pregevoli pellicole passate e anche le sequenze d’azione, nonostante dovrebbe trattarsi di un film action, sono poche. Tra queste è unicamente degna di nota un’omerica sparatoria tra l’eroe e alcuni malavitosi ambientata tra i vicoli putridi e fangosi della piovosa colonia cinese, in cui Van Damme dà prova di una efficacia tecnica rimpianta nel resto della pellicola. La musica è a tratti mielosa e non concorre a migliorare il film, mentre la fotografia si inserisce senza infamia e senza lode negli standard dei direct to video. A livello interpretativo Jean Claude ritenta la carta dell’introspezione, cercando di ripetere (senza grande risultati) i picchi recitativi raggiunti nell’ottimo JCVD e nel tostissimo Universal Soldier Regeneration (vera sorpresa dell’action recente), ma il suo volto stanco e il suo sguardo disilluso non bastano a dare spessore a un personaggio irrisolto e poco definito.
Van Damme ha voluto andare oltre le proprie effettive capacità autoriali, perdendo il controllo del narrato. Ne è dimostrazione il finale, che si rifà alle vette simbolico-metaforiche di 2001 Odissea nello spazio (qui al posto dei primati ci sono immagini del moderno degrado consumistico come hamburger, alberi abbattuti, la bomba atomica) ma non è altro che la peggiore chiusura possibile del peggior film di un attore che, nonostante questo scivolone, continua a essere marchio di qualità nell’arido panorama dell’action contemporaneo. Ci auguriamo che, dopo questa parentesi arty e naif, Van Damme torni a fare il suo sporco lavoro, salvando il mondo altre decine di volte e regalandoci piccole grandi perle capaci di soddisfare i nostalgici amatori del "vero" cinema d’azione.
Edoardo Favaron
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