Usa 2009. In sala dal 4 dicembre.
Aperto da un prologo "iettatorio" in lingua ebraica, col sorriso sulle labbra, venato di horror (chi scrive ha pensato ai Vurdalak, messi in scena nei 60s da Mario Bava), A Serious Man, ultimo film dei Coen e anteprima tra le più attese a Roma, si incentra su un mite professore di origine, appunto, ebraica che si trova a far fronte a una serie di incidenti: uno studente mediocre gli fa pressioni e ricatti per farsi promuovere, la moglie di punto in bianco gli comunica che vuole divorziare perchè ama un altro -un grosso signore ebreo dai modi calmi e melliflui-, il fratello è un mattoide che rischia l'arresto per motivi vari. In più, il vicino, americano tutto d'un pezzo, lo inquieta, i due figli sono poco gestibili tra ossessione per il look di lei e le canne di lui, e c'è una vicina di casa, milf da competizione, che lo attrae.
Il film prosegue, meglio, la linea coeniana che stava già tutta, per rimanere al penultimo film e all'ultima commedia, in Burn After Reading. Pur non essendo questo un film corale, perchè sta sul protagonista e gli altri sono al loro posto, abbiamo una galleria di casi umani, i personaggi sopra le righe che ci si possono aspettare in un film dei fratelli, anche se sorvegliati dall'attenta loro regia. A partire da lui (un bravo e simpatico Michael Stuhlbarg, dalla postura sempre più curva col passare degli eventi) e dagli altri accennati sopra, per proseguire coi rabbini consultati per cercare di cavare un senso a quanto capita, e le cui entrate in scena suddividono fittiziamente il film in parti. L'esistenza è costellata di sfighe ed eventi inaspettati, ma i Coen nel raccontarcelo non cadono nella paradossalità fine a sè stessa (se non nella sequenza del sogno col fratello, ma è appunto un sogno). E' quindi umano cercare un perchè, ma la morale è esplicitata già all'inizio: "Accogli con semplicità tutto ciò che ti succede". Conviene accettare gli eventi di cui siamo in balia, cercare risposte non porta a niente: qui i rabbini non servono a niente in tal senso, anzi quel che esce loro di bocca è straniante o inutile quanto quel che si sente da altri, quanto la telefonata surreale di un anonimo venditore di collane di cd. La visione del mondo che ne esce è espressa in toni di commedia, dolceamari, ma a guardar sotto è triste e nera, come se la vita fosse un incubo di cui siamo prigionieri.
Ci sono alcuni elementi respingenti per il pubblico, che i Coen evidentemente si possono concedere. Imbevendo la vicenda di ebraicità, facendo riferimento alla loro formazione e prendendone in giro la religione (che non è loro obiettivo primario, ma checchè ne dicano, vista la filosofia sottesa e i cretinotti messi in scena, non ne può uscir molto bene), utilizzano dei termini ebraici, sicuramente non sempre comprensibili per chi non abbia dimestichezza con quella cultura, anche se certe cose si intuiscono (il bar mitzvah) o son fatte capire (il gett). L'altro elemento è il finale, perchè tutta la fetta di pubblico che si è incazzata con quello di Non è un paese per vecchi (non a ragione), qui avrà di che ululare, con una chiusura tronca, sospesa, persino moralistica, ma cercare la rotondità in una commedia simile, dei Coen, non serve e sono ultimi minuti di notevole efficacia cinematografica. Ecco, non si tratta di un film magnifico, ma è Cinema, con senso della scrittura, dell'umorismo, dell'immagine e anche del suono: i battiti durante la scena della canna con la vicina, i Jefferson Airplane e la loro strafamosa Somebody to love che accompagnano più momenti, compreso uno dei più divertenti, protagonista un rabbino "moderno".
A.V.
Nessun commento:
Posta un commento