domenica 25 maggio 2008
The freak show. RAWHEAD REX
Prima del successo come regista, lo scrittore Clive Barker aveva già avuto modo di misurarsi professionalmente con il mezzo cinematografico tramite il cineasta londinese George Pavlou. Tale connubio portò alla realizzazione di Underworld (uscito anche come “Transmutations) e quindi di Rawhead Rex, la pellicola di cui andiamo a parlare.
Contrariamente alla loro prima collaborazione, che vantava una sceneggiatura completamente originale scritta da Barker (e stravolta dai produttori), al secondo giro il romanziere di Liverpool adatta per lo schermo un suo racconto (contenuto nei famigerati Libri di Sangue) su un famelico demone che terrorizza la campagna inglese in primavera. Nel film l’azione si sposta in Irlanda in autunno, dove, nel sagrato della chiesa di un paesino, un fulmine a ciel sereno colpisce uno strano obelisco sotto cui da secoli è imprigionato il terribile Rawhead Rex, una sorta di zannuto gigante vestito da metallaro che inizia a fare polpette dei malcapitati che si trovano sul suo cammino.
Abbandonata l’eccessiva stilizzazione dell’opera precedente, Pavlou abbassa il tiro e confeziona un horror sui generis, abbastanza dinamico, elementare e senza pretese, con il classico mostro che impazza per i boschi e la storia che in larga parte procede saltando di vittima in vittima intercalando le uccisioni con le vicende del protagonista Howard Hallenbeck (l’attore televisivo americano David Dukes), a cui il demone ha divorato la prole. Così facendo però vengono anche soffocati i picchi di originalità del racconto omonimo, che Barker asserisce di aver cercato di preservare nel suo copione, prima che questo, similmente all’anteriore Underworld, venisse manomesso, per quanto non in maniera altrettanto radicale: alcuni elementi, come l’appetito del mostro per i bambini o il battesimo del vicario con l’urina, nonostante la rappresentazione defilata, sopravvivono nella pellicola. Alquanto deludente è invece la realizzazione del bestiale antagonista: sorvolando sul mero design (lontano dalle falliche fantasie dello scrittore ed accattivante, nella sua ingenuità, solo nella locandina), gli effetti della creatura si riducono in larga parte ad una grottesca e molto poco convincente maschera di gomma, ad opera di Cliff Wallace, che in seguito farà di meglio, lavorando su film come Waxwork di Anthony Hickox o i recenti 28 Giorni \ Settimane Dopo. Per fortuna, Pavlou non insiste molto sui primi piani. Nel ruolo del Rawhead Rex troviamo il gigantesco istruttore di sci teutonico Heinrich von Schellendor (qui alla sua prima ed unica apparizione cinematografica) che di suo fa quello che deve fare senza particolare trasporto.
Un discorso analogo può essere fatto per gli effetti speciali ottici che, se già all’epoca non erano propriamente il top, oggi risultano estremamente datati. Quando invece si tratta di ravvivare il prodotto con qualche iniezione di splatter, il film si difende abbastanza bene ed in un paio di scene la fattura dei trucchi raggiunge buoni livelli. Alla fotografia c’è John Metcalfe, un veterano dell’exploitation britannica che già aveva illuminato i cult Inseminoid e Satan’s Slave di Norman J. Warren, il primo Xtro di Harry Bromley Davenport ed aveva lavorato come cameraman ed assistente operatore rispettivamente in “House Of The Mortal Sin” e “Frightmare” di Pete Walker.
In definitiva, un film non malvagio, anzi abbastanza godibile, specialmente considerandone la rarità, anche se lungi dall’essere una pietra miliare del genere. Dopo queste due deludenti esperienze, Barker deciderà di tutelare i propri scritti dirigendo da sé l’adattamento del suo romanzo breve Prigionieri dell’Inferno (The Hellbound Heart), creando così il cult “Hellraiser”, dal cui successo sono scaturiti ben sette seguiti (di qualità sempre più bassa) ed un imminente remake.
Rawhead Rex era giunto, almeno in home video, anche nel nostro paese per la Domovideo ed ogni tanto la VHS fa capolino nei mercatini per collezionisti. All’estero sono invece disponibili diverse edizioni DVD di qualità altalenante. Emiliano Ranzani
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