Messico 2015. Di Julio Hernández Cordón.
Miguel
e Johnny, giovani skater e amanti, tirano su qualche soldo vendendo
sangue loro e altrui alla delinquenza organizzata. Finché questa
pratica non li coinvolge in un affare molto grave.
Hernández
Cordón
ha affermato che voleva attenersi a una sceneggiatura, ma non
è andata così. Si apre e si slabbra, è quel tipo di film, ma senza
perdere di vista il processo di una storia, i gesti dei personaggi e
relative conseguenze. Se lo stile non cerca, di solito, una vera
empatia coi personaggi, si finisce lo stesso “nel” film, complici
anche delle buone scelte di colonna sonora, e anche per uno
spettatore non cinefilo dovrebbe essere potabile. Col suo sguardo un
po' distaccato e di testa, quindi, ma non distratto, Te prometo
anarquía
è fresco e fluido e se all'inizio l'impatto estetico sa un po' di
video, poi non lo si nota più. Il rapporto tra i due ragazzi (col
terzo incomodo costituito da una ragazza, Adri, che Johnny
frequenta), e i loro dialoghi molto naturalistici (tra
punzecchiature, cazzeggio e insulti) non sono le cose più
interessanti del film, ma il mondo in cui si muovono, mostrato con
l'utilizzo di long takes, è credibile. Ed è un contesto in cui il
lavoro è una dimensione non pervenuta – tra giovani, adulti che
fanno sport, delinquenti e trafficoni – che si apre (anche se
trattasi di lavoro non qualificato) solo verso la fine, quando i
protagonisti cambiano aria. Long takes come quello in cui il gruppo
di giovani si muove in skate; o la cruciale, molto buona sequenza del
doppio affare, col delinquente in cappellino che mette sotto, senza
fare nulla di eclatante, Miguel e fa quel che deve fare con gli
esseri umani-merce.
Certo,
di fronte all'enormità del gesto in cui i protagonisti si lasciano
coinvolgere e di cui diventano increduli complici – deportazione e
massacro, fuori dalla vista, di decine di malcapitati – , la loro
reazione non sembra neppure eccessiva: è vero che scorre del sangue,
ma interiormente non ci sono sconvolgimenti, non ci sono sui volti dei protagonisti e neppure nel film o nella sua forma. Questo lascia un sapore
strano: è spiegabile con lo sguardo “esterno” del regista, è eccesso di leggerezza oppure è che, si teme, l'accaduto in quel mondo
non sia cosa non contemplabile, “solo” un incidente grave ma non
insuperabile dal punto di vista del senso di colpa perché non al di
fuori del possibile.
A.V.
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